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 2019  agosto 29 Giovedì calendario

Quel colpo di re Carlo I che mandò in aula i soldati (e scatenò la guerra civile)

L’inghilterra ha un lunga storia e i suoi cittadini cercano spesso di trovare nel passato vicende che sembrano anticipare quelle del presente. Il confronto è rassicurante. Dimostra che il Paese ha una forte identità e che riuscirà ancora una volta a uscire vincente dalle situazioni più difficili e complicate. Dopo il passo inatteso con cui il Primo Ministro Boris Johnson ha deciso di chiudere il Parlamento per qualche settimana, molti hanno ricordato gli avvenimenti del 1641-42 quando Carlo I Stuart, re di Scozia e d’Inghilterra, fortemente irritato dall’antagonismo di Cromwell e del Parlamento, cercò di chiudere la Camera dei Comuni e vi entrò con un drappello di militari per arrestare alcuni deputati. Scoppiò una guerra civile e Carlo lasciò la testa sul ceppo del boia. Non sarà questa certamente la fine di Boris Johnson e ogni confronto con le vicende di questi giorni sarebbe assurdo. Ma esiste ormai un dibattito sulle funzioni e i poteri del Parlamento che gli inglesi prima o dopo dovranno affrontare.
Voglio credere che la Regina Elisabetta non avrebbe firmato l’atto con cui il Primo Ministro ha deciso di sospendere i lavori della Camera dei Comuni sino al discorso della Corona, il 14 ottobre, se i suoi consiglieri avessero fondati dubbi sulla legalità del provvedimento. I regolamenti parlamentari non escludono la possibilità di una proroga dei lavori e in altre occasioni l’argomento usato da Boris Johnson (una sessione parlamentare che dura ormai da 340 giorni ed è la più lunga da molti anni) sarebbe stato considerato ragionevole e comprensibile. Vi sono state proroghe in altri momenti, ma in questo caso la situazione è alquanto diversa e le circostanze giustificano molti sospetti.
Il Primo Ministro sapeva che nelle prossime settimane Jeremy Corbin, leader del Partito Laburista avrebbe cercato di raccogliere consensi, anche fra i conservatori, per presentare una mozione di sfiducia contro la sua persona. E sapeva che Corbin avrebbe approfittato del tempo di cui disponeva per aprire un grande dibattito alla Camera dei Comuni e nel Paese sulla prospettiva di una Brexit senza «deal», come viene succintamente definito l’accordo che Theresa May aveva negoziato con la Commissione di Bruxelles per risolvere i molti problemi del “dopo Brexit”. Johnson non può ignorare quanti siano i legami che ancora uniscono la Gran Bretagna alla Ue, e quanto sia necessario adottare rimedi per impedire che la brusca interruzione di questi rapporti danneggi i consumatori e le aziende, per non parlare dei Paesi che sono stati per molti anni i partner economici del Regno Unito. Boris Johnson si dichiara convinto di riuscire a risolvere ogni problema presentando al Paese un ambizioso programma di riforme che dovrebbero ridare alla Gran Bretagna un ruolo mondiale; e dice che per la preparazione del programma ha bisogno di tempo. Ma temo che abbia soprattutto bisogno di un Parlamento a porte chiuse che non gli metta i bastoni fra le ruote sollevando dubbi e facendo domande imbarazzanti. In un Paese in cui la Camera dei Comuni, per le sue tradizioni e per i poteri di cui dispone, è la spina dorsale della democrazia, la decisione di Johnson dovrebbe aprire un dibattito nazionale sul ruolo e i poteri del Parlamento in una moderna democrazia: un problema che gli inglesi, prima o dopo, dovranno affrontare.
Johnson, probabilmente, non si sarebbe avventurato su questa strada se non sapesse di potere contare sull’approvazione e sul sostegno di Donald Trump. Li unisce la vanità, la sete di potere, uno spregiudicato nazionalismo e l’insofferenza per la Ue. In questa vicenda vi è, in effetti, molto sovranismo. I sentimenti del Premier britannico per l’Ue non sono molto diversi da quelli di Marine Le Pen, di Viktor Orban e degli altri leader di Visegrad. Johnson crede di avere in mano un’ altra carta che cercherà di giocare al Consiglio Europeo del 17 ottobre quando la sua strategia consisterà ancora una volta nel tentativo di dividere la Ue. Londra vi è riuscita in altre circostanze e non vorremmo che accadesse anche ora. L’Inghilterra che ci piace è quella che ha regalato al mondo le istituzioni e le regole della democrazia: non quella che chiude i parlamenti.