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 2019  agosto 28 Mercoledì calendario

Intervista a Valeria Bruni Tedeschi

«Mi piace essere al Lido, ho sempre l’impressione di andare a una festa. Più che a Cannes» assicura Valeria Bruni Tedeschi, habituée della Mostra, stasera in passerella per il film d’apertura delle Giornate degli Autori, Seules les betes di Dominik Moll.
La sua prima volta è ormai lontana...
«Settembre 1994, arrivai con Oublie-moi. Avevo 30 anni».
Cosa la colpì?
«Che tutto si svolgesse in poco più di cento metri. Un giro sulla terrazza dell’Excelsior e trovi tutti».
Lei chi trovò?
«Philippe Garrell. Avevo visto un suo film, J’entend plus la guitare. Un mito, non osavo avvicinarlo. Adesso fa parte della mia famiglia. Mai l’avrei immaginato».
Né mai avrebbe immaginato che il figlio di Philippe, Louis, sarebbe diventato nel 2007 il suo grande amore. Lui 24 anni, lei 43. Cinque anni insieme, una bimba adottata, di cui Philippe oggi è il nonno...
«È il girotondo del caso e della vita. Tutto nasce, muore, rinasce... È il filo conduttore del film di Moll, cinque personaggi in cerca d’amore, cinque intrecci imprevedibili».
Lei è Evelyn, moglie depressa che ritrova la passione con un’altra donna, Marion.
«È la mia seconda love story gay. La prima fu a teatro con Le lacrime amare di Petra von Kant di Fassbinder. Il regista pretendeva che le scene d’intimità accadessero davvero, anche se nel buio. Non è stato facile. E nemmeno sul set di Moll. Non per l’omosessualità in sé, ma perché l’erotismo è difficile da esprimere. Uomo o donna, il turbamento è lo stesso».
Dopo una scena così coinvolgente, come se ne esce?
Le riprese
di «Seules les betes» non sono state facili
Il nervo-sismo in questi casi è così forte che bisogna sdramma-tizzare L’idea
che si tratta
di lavoro non basta Riderci su è il modo migliore per superare l’imbarazzo
«Con un po’ di umorismo. La tensione è così forte che bisogna sdrammatizzare. L’idea che si tratta di lavoro non basta. Riderci su è il modo migliore per superare l’imbarazzo».
Evelyn è attratta da Marion ma poi la fugge. Il rapporto lesbico fa paura?
«Credo che la paura vera sia quella di soffrire. Marion è giovane, per lei è un primo amore. Per Evelyn forse l’ultimo. La felicità a volte spaventa più dell’infelicità».
Morirà accoppata e un matto s’innamorerà del cadavere.
«È la prima volta che faccio la morta. Mentre ero lì, livida e rigida, mi è venuto in mente che i morti forse hanno dei pensieri. Che in quel vuoto resta una parte di vita. Difficile spiegarlo, ma è così».
Nel film tutti inseguono l’amore, nessuno lo raggiunge?
«O se accade è solo un miraggio. C’è chi trova l’anima gemella su una chat ma poi scopre che la biondina è un giovanotto africano abile nello spillargli denaro. Ci patisce, ma poi decide di continuare il gioco. L’illusione è meglio del niente».
E per lei? Meglio l’amore immaginario o reale?
«Ho bisogno della forza del sogno ma anche della quotidianità. Condividere con chi ami le piccole cose, il caffè del mattino, fare la spesa insieme, è l’allegria dell’amore. Per questo non riesco a capire le relazioni su Internet. Mi spiace quando vedo i miei figli curvi sugli schermi, isolati da tutto. Cerco di distoglierli in qualsiasi modo da quell’ipnosi malefica».
Dopo Venezia dove andrà?
«A Roma. Mi aspetta il set di Leonardo Guerra Seràgnoli, una versione moderna degli Indifferenti di Moravia. Un aggettivo oggi quanto mai attuale».