Corriere della Sera, 28 agosto 2019
Le nuove strade della filantropia
Filantropia, amore dell’essere umano, spinta – priva di ogni interesse personale – ad adoperarsi con altruismo e generosità per aiutare il prossimo, gesto gratuito nei confronti di chi si trova in difficoltà, cuore di quell’humanitas su cui si fonda la civiltà occidentale. Così scrive Paola Pierri, probabilmente una di quelle persone giuste su cui, dice la tradizione ebraica, si regge e si fonda il mondo, altrimenti in balia della distruzione.
Economista, per venticinque anni attiva con funzioni di protagonista nel settore bancario, consigliere di amministrazione di alcune importanti società italiane, Paola Pierri fonde la competenza economica – in particolare bancaria – con una rara cultura umanistica. Forse, senza i grandi romanzi della letteratura universale che lei conosce meglio dei professori di letteratura, non avrebbe potuto capire così a fondo il mondo formalizzato e insieme selvaggio intorno al quale si muove il denaro. È questa visione umanistica che le permette di capire la realtà e gli uomini che la fanno e ne vengono distrutti, come nella grande ruota di Kim che tutti spingono e che passa sopra tutti. Su alcuni, certo, molto di più che su altri ed è per questo che chi, come lei, conosce bene la ruota, sente il dovere – oggettivo, pacato, non compassionevole, razionale – di restituire un po’ di quel che si ha ricevuto e di aiutare – concretamente e razionalmente, senza pappa sentimentale – chi è sotto la ruota.
Per tali ragioni è fondatore ed executive chairman di Pierri Philanthropy Advisory, società di consulenza sui temi della filantropia, dell’economia sociale e dell’impact investing, che offre servizi a famiglie, aziende, banche, family offices, fondazioni, organizzazioni non profit, imprese sociali. I classici letterari così frequentati e amati le hanno insegnato il lucido disincanto necessario alla vera solidarietà umana, la consapevolezza delle difficoltà, delle resistenze, dei pregiudizi, delle acredini, degli ostacoli oggettivi inevitabilmente mescolati ai progetti e agli slanci generosi. Croce si rallegrava che con Marx la classe operaia avesse finalmente trovato, come egli diceva, il suo Machiavelli, liberandosi così dal sentimento generoso ma pasticcione e autolesivo. I motti esemplari sulla quarta di copertina del volume Filantropia (Aipb), curato da Paola Pierri – che contiene contributi suoi e di altri autori – dicono con Diderot che le buone intenzioni non sono sufficienti e che non basta fare il bene ma bisogna anche farlo bene e ribadiscono duramente con Gramsci che «la bontà disarmata, incauta, inesperta e senza accorgimento non è neppure bontà, è ingenuità stolta e provoca solo disastri».
Perché questo libro, le chiedo, qual è il criterio della varia scelta dei temi, dei contributi dei vari autori, da te scelti e coordinati?
Paola Pierri – Sono partita dalla constatazione che di rado il termine filantropia viene utilizzato, in italiano, nel suo significato tecnico; in realtà, infatti, nell’ambito del settore non profit indica coloro – imprese, famiglie, individui, fondazioni – che, disponendo di possibilità economiche, affrontano il problema di come spenderle al meglio per raggiungere gli obiettivi sociali, culturali o ambientali desiderati; in questo senso il termine filantropia si contrappone e si accompagna a quella parte del settore non profit che, invece, ricerca sistematicamente fondi per finanziare le proprie attività sociali, culturali o ambientali. In inglese questa contrapposizione tra chi – comunque sempre nell’ambito del non profit – ha il denaro e chi lo cerca è ben resa dai termini grant-makers e grant-seekers, mentre nella nostra lingua non abbiamo distinzioni simili in grado di restituire la differenza sostanziale ed operativa. Partendo da questo ho cercato, poi, di fare una rassegna della ricchezza e della varietà di forme, attività e fenomeni in cui la filantropia si articola, anche per contrastare quel senso di arcaico, desueto, a volte polveroso che – mi sembra e lo chiedo anche a te – la parola evoca.
Claudio Magris – La consapevolezza dell’importanza della filantropia sta crescendo, entra nelle università, ad esempio nell’insegnamento e nelle ricerche di Giuliana Gemelli nell’Università di Bologna. Filantropia, filantropo, filantropico sono tuttavia termini che suscitano pure larvata diffidenza o sarcasmo quasi si trattasse di uno spirito da Esercito della Salvezza. Lo splendido Dizionario della lingua italiana di Battaglia ne dà la definizione corretta di valore. Ma elenca pure l’uso in senso spregiativo («filantropie da turista», per Buzzati; «imbusecchiati di filantropia», scrive Carducci). Effettivamente molte volte l’uomo ovvero ognuno di noi mostra un volto orribile e il ritenerlo fatto a immagine e somiglianza di Dio sembra una bestemmia.
Anche la figura del filantropo, ritagliata su quella del miliardario americano, sembra ambivalente, una faccia da zio Paperone più che da Adriano Olivetti. Andrew Carnegie, magnate dell’industria petrolifera e siderurgica emigrato giovanissimo e povero negli Stati Uniti, ai primi del Novecento liquida le sue partecipazioni e inizia un’intensa attività filantropica che dovrebbe contrastare la crescente diffusione del socialismo e che è stata peraltro macchiata dalla durissima repressione di uno sciopero sia pure ufficialmente deplorata dallo stesso Carnegie, in quel momento assente dagli Stati Uniti.
Eppure, come documenta a fondo il tuo libro, il rilievo che hanno le erogazioni e gli investimenti filantropici negli Stati Uniti sono enormi; ad esempio i ventinove miliardi di dollari elargiti da Bill Gates e i trentacinque miliardi aggiunti da Warren Buffett, che tu citi...
Paola Pierri – Le vicende filantropiche statunitensi sono spesso formidabili ed innovative (Mark Zuckerberg ha da poco creato la sua iniziativa filantropica sotto forma di limited liability company, cioè di società per azioni!), ma sono quasi sempre legate, dal punto di vista culturale, antropologico, amministrativo e fiscale, a quella società e quell’ordinamento. Sono però importanti, proprio per lo spirito di emulazione che provocano e per aver contribuito a rinnovare spirito ed immagine della filantropia anche in una Europa più disincantata e diffidente.
Claudio Magris – Rimane tuttavia una grande differenza rispetto ai grandi, umanamente straordinari filantropi italiani di cui tu parli con intensità; una vera epica individuale e famigliare, magnanima ed efficiente. Ermenegildo Zegna, che in provincia di Biella regala ai suoi concittadini anche il verde delle montagne rimboschendo quelle che li sovrastano e aprendo una strada panoramica con la Valle d’Aosta; Gaetano Marzotto che unisce la sostenibilità d’impresa con le politiche di welfare e costruisce la sua città sociale; molti altri, tra cui spicca Casa Verdi, casa di riposo per musicisti voluta, realizzata e seguita con attenta passione dal Maestro, un’opera in cui la generosità, l’attenzione razionale oculata, la cura del dettaglio si uniscono organicamente con una creatività che è quella del genio, genio dell’arte e dell’armonia quotidiana. La ricchezza, se onestamente e apertamente acquisita, non è di per sé una colpa, come una certa radicata mentalità inclina a credere. Sì, il denaro talvolta è lo sterco del diavolo, come suona un vecchio detto, ma può essere e talora è un buon concime.
Paola Pierri – La storia italiana è piena di personalità innovative e visionarie, che hanno creato cose straordinarie e nel libro ne abbiamo raccontate alcune, legate in particolare al mondo imprenditoriale del recente passato. Abbiamo anche cercato di far capire quanto la filantropia sia cambiata e stia cambiando, arricchendosi, insieme alle sue forme più tradizionali, di modalità operative nuove, in grado di attirare l’attenzione di persone disposte e interessate a tentare strade nuove, a dare il proprio contributo, che, è bene ripeterlo, non e solo denaro, ma pensiero, strategia, visione di lungo periodo, sguardo ampio e multisettoriale, professionalità, organizzazione e trasformazione operativa di valori e idealità. Chiedo a te se è riuscito il tentativo di restituire una immagine viva e dinamica di un settore in una fase di grande trasformazione.
Claudio Magris – Sia il tuo saggio sia gli altri contributi organicamente uniti dallo spirito e dalla forma che dai al libro illustrano, con precisione analitica e partecipazione umana, i vari aspetti dell’attività filantropica, articolata in diverse e complesse sfere: il terzo settore, l’advisory, il wealth management, l’impact investing, la fiscalità della filantropia in Italia e all’estero, l’apparentemente paradossale Trust Onlus, le fondazioni famigliari, la corporate philanthropy; i racconti di storie concrete e affascinanti, quella della Fondazione Paideia e quella dei Quartieri Spagnoli, che rispettivamente hanno dato serenità a molti bambini e famiglie e operato una rigenerazione urbana; la Fondazione Ambrosoli, incredibile avventurosa solidarietà tra Lombardia e Uganda, in cui lo spirito cristiano e la razionalità imprenditoriale creano vita e fraternità nel cuore di tenebra di un’Africa devastata dalle guerre; il nuovo mecenatismo della Fondazione Re Rebaudengo e Casa Verdi, «l’ultimo capolavoro del Maestro». Non c’è il pericolo che la narrazione di quella gloriosa e umanissima realtà faccia dimenticare l’orrore, lo sfacelo, la devastazione del mondo che ci circonda e del mondo intero, che nel suo insieme appare così difficilmente salvabile? Non è un caso che i più grandi scrittori italiani impegnati concretamente nel lavoro industriale, quali ad esempio Volponi e Ottieri, pur operando in imprese modello, abbiano offerto un quadro estremamente critico, talora anche ferocemente critico, della realtà industriale...
Paola Pierri – Uno degli obiettivi del libro, ma ancor più del mio lavoro, è proprio il superamento di quelle componenti eccessivamente positive ed eccessivamente negative, che per motivi storici, culturali, ideologici, persino politici, troppo spesso si associano al far del bene e che niente hanno a che vedere con una attività umana, con un lavoro, concreto e complicato, che come tanti altri ha bisogno di professionalità e metodologie serie per raggiungere risultati. È ormai tempo di restituire la filantropia ad una sua oggettività, forse meno esaltata ed esaltante, ma più realistica e soddisfacente, con le sue caratteristiche distintive, con una sua cultura di riferimento, con una sua propria storia ed evoluzione; e che è, in fondo, una componente importante della società. Come dico nel libro, perdere questa occasione significherebbe anche, probabilmente, la rinuncia al contributo delle generazioni più giovani, certamente interessate a sperimentare una filantropia innovativa, più conscia delle proprie possibilità reali e inclusa in una visione del mondo informata, vasta e omnicomprensiva.