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 2019  agosto 28 Mercoledì calendario

Intervista ad Anna Ottani Cavina


C’erano una volta le mostre. Percorsi allestiti in musei e gallerie che ridisegnavano la conoscenza, illuminavano artisti dimenticati, proiettavano nuova luce sulle star consolidate. La seconda metà del Novecento è stata una scoperta continua, a partire da Milano, 1951: quando a Palazzo Reale Roberto Longhi rivelava al mondo il genio di Caravaggio. A una stagione quasi soppiantata dalla pigrizia e dal business, dal richiamo facile dei soliti nomi in cartellone, la storica dell’arte Anna Ottani Cavina dedica un libro a metà tra il saggio e il memoir.
Una panchina a Manhattan (Adelphi) non è un nostalgico diario del bel tempo che fu. Né un attacco al sistema fine a se stesso. Ma una bussola utile per scoprire “nuove geografie dell’arte”. «Si può essere contemporanei a una sola stagione. Poi ce n’è un’altra – dice l’autrice – Nessuna polemica». Ottani Cavina, che ha insegnato a Bologna, ma anche a Yale, Brown e Columbia University, che ha creato la Fondazione dedicata a Federico Zeri, restituisce al lettore le tappe del suo viaggio: gli incontri e soprattutto le mostre visitate nel mondo. Con un apparato di immagini che arricchiscono e rendono più esplicito il testo, si parte alla scoperta di Georges de La Tour, dei gelidi interni del danese Hammershoi, di Liotard “turco d’Occidente”, di Ingres, John Ruskin, dell’epica americana dei pugili di Thomas Eakins e dei misteri di Humbert de Superville, David Lynch di fine Settecento.
Forse è anche da qui, da “una panchina a Manhattan”, che la storia dell’arte può ritrovare il suo senso. No, non quella di Woody Allen, ma la panchina da cui Robert Rosenblum, padre della critica, insegnava ai suoi studenti. Era a Washington Square, accanto alla statua di Garibaldi. Tanto per ribadire che la storia dell’arte è soprattutto Storia, la nostra.
Ottani Cavina, il tempo delle mostre è davvero finito?
«Il timbro del libro non è affatto nostalgico. Ho voluto ricordare una stagione che ho vissuto, a partire dagli anni Settanta, quando le mostre – allora molto meno frequenti e con tempi lunghi di gestazione – hanno dilatato la nostra conoscenza, aperto nuovi orizzonti. Quando i cataloghi hanno scardinato le gerarchie dei manuali e portato alla ribalta nuovi protagonisti o inquadrato da angolazioni inattese i grandi artisti di sempre. Ricordo un’esposizione a New York in cui si videro gli interni dipinti da Matisse, i suoi spazi radianti, musicali, orfici e, accanto, la sua “biblioteca di lavoro” cioè quei broccati, taffetà, velari copti ed afgani che avevano acceso la sua immaginazione e polverizzato lo spazio prospettico. Una rivelazione».
Che cosa è successo, poi? Oggi di rivelazioni in mostra se ne vedono meno.
«Pigrizia? Non saprei. Piuttosto questione di business… si è spostato il baricentro delle esposizioni, in passato occupato dai curatori o dai conservatori dei musei. Oggi il taglio, il progetto, i prestiti di una mostra dipendono da altri fattori, rispondono a esigenze diverse di comunicazione e mercato, debbono rispettare gli accordi con gli sponsor.
In Italia, dove i finanziamenti per lungo tempo sono venuti dallo Stato, il rapporto con i privati non è ancora rodato sulla base di quelle regole chiare (con meno interferenze) applicate nei musei d’oltreoceano, dove i contributi privati alimentano da sempre i musei e la cultura».
Le file chilometriche al Louvre per vedere solo la Gioconda sono una vittoria o un fallimento della storia dell’arte?
«L’ex direttore del Louvre Pierre Rosenberg aveva l’idea di spostare la Gioconda sul Quai del Lungosenna.
Andare a vederla sarà pure solo una crocetta da mettere, ma è meglio entrare al Louvre che in un centro commerciale».
Federico Zeri tra le rovine, nella
notte di Palmyra, è uno dei ricordi più forti rievocati nel suo libro.
«Zeri – diceva un archeologo, Antonio Giuliano – era un antico approdato fra noi. Profonda era la conoscenza delle fonti e perfetta la ricostruzione di un passato che scorreva davanti ai suoi occhi. A Palmyra si camminava nel deserto, nel regno di Zenobia. Zeri spiegava che lì, dove tutto è oggi coperto dalla sabbia, l’imperatore Aureliano andava a caccia di gazzelle, nel verde. Aveva grande passione civile. Le sue denunce, dolenti, laconiche, erano documentate per essere costruttive.
È stato il suo prestigio di grande studioso e di uomo libero a promuovere il riscatto della via Appia, della reggia di Venaria, della Sala delle Cariatidi in Palazzo Reale a Milano».
Zeri coltivava un rapporto fisico con l’opera d’arte. Che cosa significava per gli studiosi avere al centro la materialità dell’oggetto?
«Mi sono riconosciuta in una tradizione che metteva al centro l’oggetto e la sua fisicità anche fabbrile. Per questo le mostre erano imperdibili. Perché permettevano una rivisitazione dell’opera tutta di Georges de La Tour o di Poussin. Il riconoscimento, la svolta interpretativa, la reinvenzione dell’opera nella scrittura scaturivano da quegli incontri ravvicinati, nelle sale silenziose, le tele a un passo da noi. Oggi, nell’era digitale, questa esperienza si tinge di una colorazione esotica. Le potenzialità del virtuale hanno stemperato quel bisogno di fisicità delle immagini allora così intrinseco alla loro rivelazione formale».
Tra gli incontri fondamentali, c’è quello con Robert Rosenblum e le sue lezioni dalla panchina di Manhattan.
«Rosenblum scompaginava gli schemi dell’arte dell’Ottocento, introducendo una seconda polarità oltre a quella francese. In una prospettiva culturale moderna, recuperava “i sommersi”, gli artisti figurativi del nord (tedeschi e scandinavi) che le avanguardie avevano cancellato. Dell’arte romantica, accanto ai valori formali, metteva in luce i grandi temi religiosi e filosofici “da Friedrich a Rothko”, come si legge nel titolo di un suo libro bellissimo».
Esiste ancora una comunità nella storia dell’arte? È come se fosse un mondo rimasto quasi senza voci.
«Da secoli l’arte non è più quel canale esclusivo di comunicazione che aveva saputo conquistare strati di popolazione quasi illetterata, da sempre allenata a “leggere” le immagini e il loro messaggio. Sono altri i canali per comunicare e incidere oggi. Ma si deve continuare a raccontare la Storia, da un’angolazione che è quella dell’arte.
Più che attribuire un valore commerciale alle opere d’arte, dobbiamo servircene per ricostruire un contesto. Dobbiamo farlo ancora, al di fuori dei nostri recinti».