la Repubblica, 28 agosto 2019
La dieta dei primitivi
Ma chi l’ha detto che mangiare troppa carne fa male! A farci ammalare e invecchiare sono pane e pasta. Lo dicono gli adepti della paleodieta, detta anche dieta preistorica. Secondo loro, dovremmo tornare a nutrirci di selvaggina, radici, frutti spontanei. Come i cacciatori raccoglitori dell’età della pietra che, come è noto, erano sani come pesci.
Insomma, il mantra di questo regime alimentare a marcia indietro è zero cereali, legumi e latticini. Mentre carne, pollame, pesce, uova, verdura, frutta fresca e secca, giù a manetta. Il vangelo dei neocavernicoli è il libro The Stone Age Diet ( La dieta dell’età della pietra ) scritto nel 1975 dal gastroenterologo americano Walter L. Voegtlin. Ma il primo profeta del credo paleo è stato l’etnologo canadese Vilhjalmur Stefansson, esploratore dell’Alaska e grande conoscitore della cultura eschimese. Vivendo per anni a stretto contatto con il popolo dei ghiacci, ha sperimentato il loro menù da grande freddo. Cacciagione, pesci grassi, uova, bacche, radici e qualche vegetale cresciuto in autonomia.
Un regime alimentare preagricolo, che Stefansson promuove nel suo bestseller Not by Bread Alone (Non di solo pane), uscito nel 1946, dove presenta quella che a suo avviso è la prova regina della salubrità della tavola paleolitica. Che starebbe nell’assenza di carie dentarie tra i cacciatori polari, mentre noi Occidentali, mangiatori di pane e pizza, ne siamo tormentati. A dargli man forte è, guarda caso, un dentista, Weston A. Price, altro paladino della proteina in purezza e critico feroce dell’industria alimentare, accusata di fare un uso scriteriato di zucchero per rendere palatabili i suoi prodotti di bassa qualità.
E fin qui niente da eccepire. Ma l’esploratore dei ghiacci, noto alla comunità scientifica come l’«uomo che ha mangiato solo carne», rintraccia nella Bibbia le ragioni storico-simboliche del suo credo nutrizionale. E precisamente in quel passo della Genesi (45, 17-18), dove il faraone, offrendo a Giuseppe e ai suoi fratelli il meglio dell’Egitto, dice: «E mangerete il grasso della terra». Come dire che anche secondo il Libro, la natura dell’uomo è carnivora e le bistecche succulente sono il cibo più adatto al suo metabolismo preagricolo.
Oggi i blog dedicati alle paleodiete riprendono gli argomenti di Stefansson e Price, carie comprese, per screditare tutti i regimi basati sul consumo di cereali e carboidrati. E in particolare se la prendono con la dieta mediterranea, uno stile di vita millenario figlio della rivoluzione agricola e delle civiltà del Mare Nostrum. Scoperto in Italia negli anni Cinquanta dal fisiologo americano Ancel Keys e da sua moglie, la biologa Margaret Haney. E riconosciuto dalla scienza ufficiale come uno dei sistemi nutrizionali più adatti a mantenersi in buona salute e prevenire le malattie cardio- cerebro-vascolari, al punto da avere ispirato la piramide alimentare dell’Oms.
Ma tutta questa scienza e conoscenza non contano per gli integralisti del no-carb che, incuranti dell’impatto ambientale ed etico di un consumo massiccio di cibi animali, mettono sul banco degli imputati il grano e i suoi fratelli. Accusandoli di aver snaturato la scimmia nuda e di averne fatto un animale disadattato, incapace di metabolizzare i nuovi alimenti prodotti dall’invenzione dell’agricoltura. Da lì sarebbero derivate tutte le malattie della civilizzazione, come diabete, carie e obesità.
In realtà le ricerche compiute dagli antropologi dimostrano che l’uomo delle caverne di carne ne vedeva ben poca, perché in realtà seguiva una sorta di regime vegano. Si stima che i cavernicoli d’antan mangiassero un quarto della carne e il triplo dei carboidrati rispetto ai loro epigoni di oggi. Tant’è che in molti siti archeologici risalenti a trentamila anni fa, sono stati trovati residui di amido proveniente da cereali macinati.
Tralasciando gli aspetti risibili di questa nuova moda, che fa fuori dodicimila anni di storia, di esperienze, di innovazioni, di progresso scientifico, di conquiste mediche, di ricette sane e buone, è fondamentale interrogarsi sul perché oggi queste mode alimentari trogloditiche facciano tanti proseliti. Al punto che il paleo business muove un volume d’affari a dir poco imponente. Che sta cambiando la stessa esposizione dei cibi pronti nei supermercati, soprattutto di quelli più choosy come il newyorchese Dean & DeLuca: nei suoi opulenti negozi di Broadway e Singapore, espone piatti da asporto collocati in scaffali che separano rigorosamente gli amidi dalle proteine. L’insalata di pasta dalla tartare di salmone, il riso basmati dal pollo con i peperoni, i ravioli dai gamberoni, il cous cous dallo spezzatino, il bulgur dalle uova sode, per orientare meglio i nuovi neandertaliani. E aiutarli a evitare quelli che considerano killer foods.
Probabilmente niente rassicura come l’idea di ritrovare la nostra condizione originaria. E smascherare il grande bluff del progresso, che appare sempre e comunque un errore, un peccato originale. Dimenticando che questa presunta “origine naturale” non è immutabile, altrimenti saremmo tali e quali ai nostri antenati. E che l’homo Sapiens è arrivato fin qui grazie alla cultura, che comprende anche l’agri-coltura.
Lo dice la lingua stessa, che usa espressioni come “coltivato” per definire l’uomo civile. Quello che passa ore a smanettare sullo smartphone e non corre come un forsennato per inseguire mammouth, renne, orsi o per sfuggire ai tirannosauri. La storia umana, insomma, non assomiglia all’agriturismo giurassico vagheggiato da questa mitologia naturista e dai suoi imbonitori, piazzisti e ciarlatani.
Ai quali sfugge che i veri paleouomini non superavano i trent’anni. Meglio vivi che primitivi.