la Repubblica, 28 agosto 2019
Henri Paul, l’autista fuori servizio alla guida della Mercedes che il 31 agosto di 22 anni fa si schiantò a Parigi mettendo fine alla vita di Lady D e Dodi
Qualche volta le piccole storie hanno un dettaglio che le fa grandi. Nella piccola storia di Henri Paul, aviatore, guardia del corpo, autista nella sua ultima notte, il dettaglio stava seduto sul sedile posteriore della Mercedes S280 noleggiata all’ultimo momento dall’Hotel Ritz di Parigi, e lanciata sul Lungosenna a 123 chilometri all’ora, venti minuti dopo la mezzanotte, ultimo giorno d’agosto del 1997. E il dettaglio era nientemeno che Lady Diana Spencer, 36 anni, bionda, spaventata, fragile, di professione principessa di tutte le favole amare, sempre in fuga da se stessa, sempre inseguita da scandali di carta, pettegolezzi, fotografi con la loro incessante pioggia di flash che era la sua coda di cometa, la sua maledizione, il riverbero luccicante della sua intera vita vissuta in pubblico e tra meno di due chilometri, della sua morte.
Con lei, sul sedile posteriore della piccola storia di Henri Paul, sedeva il nuovo compagno, il ricco Al-Fayed, 42 anni, playboy egiziano, che aveva nome e cuore di giocattolo, Dodi, titolare di amanti da jet set come Brooke Shields, Winona Ryder, Tina Sinatra, di scandali imbrattati di alcol e cocaina, di panfili e ville che erano la sua intera vita vissuta nel buio dei night club e tra meno di due chilometri, la sua morte.
Henri Paul, 41 anni, era d’altra pasta, altra consistenza. Veniva dal porto malinconico di Lorient, alta Bretagna, dove i tedeschi, in tempo di guerra, nascondevano i sommergibili U-boot a guardia dell’Atlantico, perciò cento volte bombardata e poi ricostruita con case bianche e basse, tetti neri, un’aria di vento anche senza vento e pescatori che nei bistrot del porto bevevano birra Arsouille e fumavano Gitanes, prima di prendere il mare.
Lui marinaio non lo era stato mai. Figlio di un operaio e di una insegnante, preferiva le nuvole al salmastro e perciò a 20 anni s’era arruolato in aviazione e a 29 ne era uscito pilota con 605 ore di volo nelle notti atlantiche come il suo mito, Saint-Exupéry, che da qualche parte, nel luglio ’44, si era inabissato dopo l’ultimo decollo dall’aeroporto di Bastia, Corsica.
Per un po’ aveva venduto barche, si era cullato in piccoli amori di provincia, aveva imparato a suonare il pianoforte, specialmente Chopin, che era un altro modo di volare via, senza staccare l’ombra da terra. Ma per lo più si era annoiato sotto alle nuvole basse di Lorient. Perciò quando il suo migliore amico Claude Garrec, gli aveva detto che dentro ai cristalli dell’Hotel Ritz cercavano addetti alla sicurezza, aveva preso il treno e a trent’anni appena compiuti, con la solida qualifica di ex soldato, era entrato nello scrigno scintillante di Place Vendôme, l’albergo più costoso e più chic del primo Novecento, frequentato da re, regine, avventurieri, dove Escoffier aveva inventato l’alta cucina, Proust la nostalgia, Hemingway le notti in bianco dei toreri. E Coco Chanel aveva disegnato le sue sete dentro alla suite del terzo piano abitata per 34 anni.
Di tanta luce, Henri Paul non si curava. Vestiva in grigio. Era meticoloso nel lavoro. Era paziente con le dame capricciose e i nobilissimi ubriaconi. Nella notevole biografia che Beppe Sebaste gli ha dedicato H.P. L’ultimo autista di Lady D, il personale dell’albergo lo ricorda “gentilissimo”, “paziente”, uno che “metteva ordine nel disordine”. Per questo, dopo pochi anni, era diventato il numero due della sicurezza, conosceva personalmente Mohamed Al-Fayed, il miliardario che in pochi anni si era comprato l’Hotel Ritz e a Londra i magazzini Harrods e che sembrava avere tutte le fortune, salvo il figlio maggiore, Dodi, al quale passava un appannaggio di 100mila dollari al mese, che era il modo migliore di peggiorarlo.
Henri di dollari ne guadagnava 30mila l’anno. Si era affittato un bilocale proprio davanti alla Bibliothèque Nationale. In quartiere aveva la stessa reputazione di uomo cortese. Amava una certa Laurence che lo aveva lasciato l’anno prima. E perciò camminava solitario, leggeva il giornale ogni mattina al Café Pélican, dove cenava alla sera, sempre allo stesso tavolo.
Quell’ultimo giorno – il 30 agosto 1997 – era fuori servizio. Ma dall’albergo avevano chiamato per un imprevisto. Dodi e la principessa Diana erano atterrati a Le Bourget, dopo i fasti della Costa Smeralda, dove il loro bacio sulla prua del Jonikal, 64 metri di super yacht, era stato immortalato dai giornali di tutti e cinque i continenti, mandando nel panico Buckingham Palace, la Regina Elisabetta, e i servizi segreti d’Occidente, per quella proibitissima relazione tra la madre del futuro re d’Inghilterra e un imbarazzante playboy musulmano.
Poderosi intrighi internazionali e banalità da sbrogliare di minuto in minuto, avevano bisogno proprio di lui, Henri Paul, visto che Diana e Dodi, si erano portati dietro la masnada elettrica dei paparazzi, arrivati tutti ad assediare il Ritz in attesa della loro cena e forse di un altro bacio da far rosicchiare a tutte le casalinghe depresse del mondo.
Così Henri, che si era bevuto un paio di birre fuori servizio, arriva alle 22,08, ripreso dalle telecamere di sorveglianza del Ritz. Parcheggia la sua Mini Minor nera. Scherza con i fotografi che fanno mucchio sulla piazza. Entra. Diana invece di starsene chiusa nei 500 metri quadrati della Suite Imperiale, dove anche l’aria chiede permesso per entrare, a mezzanotte pretende di andare a dormire nel super attico di Dodi con vista sugli Champs-Élysées.
Uscire è il modo migliore di mettersi nei guai. Lo fanno. Ma per ingannare il destino escono dal retro dell’albergo e prendono la S280 elegante, ma vecchia, che sta a disposizione nel garage.
Henri ha fatto quattro corsi di guida veloce alla Mercedes di Stoccarda, per imparare le tecniche anti rapimento. Accanto a lui siede Trevor Rees-Jones, 29 anni, ex paracadutista, guardia del corpo di Dodi. Nelle immagini sature delle telecamere di sorveglianza, Diana appare tesa, spaventata. Eppure si è vestita elegantissima, pantaloni bianchi, giacca di seta nera. Mentre Dodi ha ancora il giubbotto di daino e i jeans del viaggio.
Partono senza sgommare. Ma ci sono un paio di fotografi a guardia del retro che avvertono tutti gli altri. Inizia l’inseguimento. L’auto corre a velocità crescente verso Place de la Concorde, imbocca il Lungosenna. Una decina di auto e almeno altrettante moto inseguono. Scattano i flash, stridono le gomme. È mezzanotte e 23 minuti, quando Henri imbocca il nero del Tunnel dell’Alma. È troppo veloce e la Mercedes troppo pesante per reggere la rotta. Striscia su tre piloni dei trenta che dividono la carreggiata. Va a sbattere sul tredicesimo. Esplode tutto. Silenzio, addio.
Diana e Dodi, senza cinture di sicurezza, stanno morendo nel buio del loro mondo capovolto dallo schianto. Rees-Jones, la guardia del corpo, è svenuto, ha il volto fratturato ma la cintura e l’airbag lo hanno salvato.
Henri è morto sul colpo, sfondato dal ferro del motore e dal volante. I fotografi stanno tutti intorno al relitto che manda fumo e a Diana che respira ancora. In tanti scattano foto che non vedremo mai. Nessuno si occupa di lui, mentre si accendono le sirene dei soccorsi e scatta l’allarme planetario e nella notte squillano i telefoni di tutte le cancellerie del mondo. Dopo la regina è il principe Carlo a essere svegliato, poi la nazione. Al corpo di Diana, alla sua storia di principessa ripudiata e in fuga, si inchineranno tre milioni di londinesi, più due miliardi di spettatori tv nel più lungo e silenzioso funerale della storia, il primo dell’era globale, dondolato dai cavalli in nero delle carrozze, dalle lacrime di cera di Elton John e dagli incensi della cattedrale di Westminster.
Su Henri Paul, la quinta ruota della storia, scende l’ombra dei sospetti. Diranno che era alcolizzato, ma non è vero. Due giorni prima aveva passato i test per il rinnovo delle credenziali di volo. Diranno che era un agente dei Servizi inglesi. Un uomo inaffidabile. Ma Diana e Dodi sarebbero sopravvissuti se solo avessero indossato le cinture. Gli faranno tre autopsie, dieci analisi del sangue. E rovistando per una dozzina d’anni dentro la sua vita, troveranno qualche pastiglia di Prozac e un amore finito male. Spegnendo la sua vita quella notte, Henri Paul ha illuminato il tuono della grande storia. Che un istante dopo lo ha cancellato.
Se andate al cimitero di Lorient, la sua tomba neanche si vede, è una lastra di marmo color arancio in mezzo a tante altre. Contiene una bara vuota. Il suo corpo è stato cremato un anno dopo i funerali. Come capita qualche volta ai piloti che non ritornano è un ricordo che si è perso tra le nuvole.