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 2019  agosto 27 Martedì calendario

Biografia di Gaetano Scirea

E così sono trenta. Trent’anni da quando Gaetano Scirea, signor libero e libero signore, ci lasciò. Era il 3 settembre 1989, una domenica. Successe su una strada polacca, in uno schianto. Aveva 36 anni, era il vice di Dino Zoff. Lui, Gai, a spiare per la seconda volta (proprio così: per la seconda volta, maledizione) il Górnik Zabrze, la squadra dei minatori che la Juventus avrebbe poi affrontato ed eliminato, agevolmente, dalla Coppa Uefa; la Juventus a Verona, per la seconda di campionato, 4-1 rotondo e spensierato con doppietta di Totò Schillaci.
I compagni lo seppero all’uscita dell’autostrada, dal casellante. Il Paese, dalla voce di Sandro Ciotti alla Domenica sportiva. Millenovecentottantanove: gli studenti e i carri armati di Piazza Tienanmen, la caduta del Muro di Berlino, la scomparsa di Leonardo Sciascia e Samuel Beckett, la fucilazione di Nicolae Ceausescu in una Romania non più prona.
Gaetano Scirea ha avuto, da morto, tutto quello che avrebbe meritato da vivo, ma non gli demmo, o gli demmo poco, per quel pudore (suo) che rallentava la frenesia (nostra). I titoli li forniva ai datori di lavoro, non ai giornali. Ci manca, ci manca tanto, perché tutto, in Italia, è cambiato, persino il ruolo che occupava: non si scrive più “libero”, si dice “centrale”. Ai suoi tempi non c’era Internet, non c’erano i social: la sua timidezza era una Bastiglia che solo Mariella conquistò per dargli Riccardo, che nella Juventus odierna governa il settore dei match analyst.
Se il papà di Felice Gimondi era camionista, il papà di Gaetano lavorava alla Pirelli. Le origini operaie ne hanno forgiato il carattere, schivo e leale. Scirea nacque il 25 maggio 1953 a Cernusco sul Naviglio, cintura milanese, una comunità con un debole per i battitori liberi, da Roberto Tricella, suo erede alla Juventus, a Roberto Galbiati, sponda Toro. Giampiero Boniperti lo prelevò dall’Atalanta, Titta Rota, Ilario Castagner e Giulio Corsini erano stati i suoi primi istruttori. Gai giocava a centrocampo, fu Heriberto Herrera – quello del movimiento, il domatore di Omar Sivori – ad arretrarlo, a impostarlo da ultimo baluardo, o meglio ancora: da regista difensivo.
Venne arruolato per sostituire Billy Salvadore, e ci volle un infortunio, a Luciano Spinosi, per spianargli la strada. Allenatore, Carlo Parola; e, subito dopo, Giovanni Trapattoni. Scirea libero, Francesco Morini detto Morgan stopper e via via tutti gli altri, da Beppe Furino a baron Causio a Roberto Bettega. Alla Juventus dal 1974 al 1988, ha vinto 7 scudetti, 2 Coppe Italia, 1 Coppa dei Campioni (quella, tragica, dell’Heysel: in qualità di capitano, lesse il drammatico messaggio ai tifosi, “Giochiamo per voi”), 1 Coppa delle Coppe, 1 Coppa Uefa. 1 Supercoppa d’Europa, 1 Intercontinentale. E con la Nazionale di Enzo Bearzot disputò tre Mondiali, laureandosi campione nel 1982.
Scirea è sempre stato Scirea, in campo e fuori, mai espulso, eppure comandava le barricate, mai un gesto che non fosse normale, quasi noioso. Aveva quel naso a prua che gli indicava la rotta, si sganciava spesso, segnò due gol in un derby rovesciato da 0-2 a 4-2, non snobbava i taccuini: semplicemente, non era così ruffiano, così “figliodi”, da intortarli. La riservatezza, a volte, arma il coraggio.
La società gli ha intitolato una curva dello Stadium, non proprio a sua immagine e somiglianza visti i gusti e le amicizie degli inquilini. Portava a casa tifosi sconosciuti, “sai, Mariella, hanno fatto tanti chilometri per vederci”, e a Firenze, un pomeriggio di risse, invitò i belligeranti a piantarla, “Non vi vergognate? Pensate alle vostre mogli, ai vostri figli”.
Era fatto così. E dal momento che militava nella Juventus sembrava ancora più alieno, più lontano dai cliché che ci piace distribuire. Solo un pezzo di cronaca, e di carta, lo rese più orgoglioso della carriera, il diploma di maestro che aveva promesso a papà Stefano e mamma Giuditta. Lo conseguì nel 1987, all’Istituto magistrale Regina Margherita di Torino. Studiava in salotto, studiava in ritiro, Mariella lo interrogava su Ugo Foscolo e Giovanni Pascoli, come ha raccontato Fabrizio Prisco nel libro Campioni per sempre. E poi lo scritto: scelse la traccia di Norberto Bobbio su cosa significhi “cultura”. E poi il compito di matematica: una tortura. Quindi gli orali, italiano e scienze naturali: si salvi chi può. Si salvò. Vinse.
Come al Bernabeu di Madrid, la sera dell’11 luglio 1982. Andate a rivedervi la trama che annunziò il secondo gol. Altro che manifesto di calcio vecchio, decrepito. Ripassiamola insieme: pressing difensivo di Paolorossi su Paul Breitner, palla a Scirea, a Bruno Conti, di nuovo a Pablito, ancora a Gai. Siamo nell’area tedesca. Tacco (ripeto: tacco, non tocco) di Scirea a Beppe Bergomi, da Bergomi a Scirea, a Marco Tardelli, controllo un po’ così, drop mancino, gol. L’urlo ci fece prigionieri. E per un attimo, “quello”, dimenticammo la bellezza di tutti gli altri.
Dal Messico, nel 1986, Scirea si improvvisò persino giornalista per I Siciliani, valoroso foglio antimafia di Claudio Fava. Era una finestra sul mondo, Gaetano, non solo un lucchetto.