Corriere della Sera, 27 agosto 2019
WIMBLEDONXChi conosce il finale d’uno dei più famosi racconti di Poe, Il ritratto ovale, potrà considerarsi preparato a gustare con maggiore emozione le ultime righe del Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde adesso riproposto nella Bur nella traduzione di Massimo Scorsone
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Chi conosce il finale d’uno dei più famosi racconti di Poe, Il ritratto ovale, potrà considerarsi preparato a gustare con maggiore emozione le ultime righe del Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde adesso riproposto nella Bur nella traduzione di Massimo Scorsone. Ci sono coincidenze? Che sciocchezza! L’arte, quando sia arte di classici, non è mai replica ma semmai attraverso possibili accostamenti motivo di nuovo e più sorprendente incantamento. Il genio, quando sia tale, è «condannato» all’unicità e i confronti confermano questa solitudine fatta di mistero. Come recensore in poche righe non voglio aggiungere di più nel timore di offendere due testi d’eccezione.
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A proposito di quanto appena detto aggiungerò che Wilde è stato perseguitato dalla sua spavalda originalità. La sua conversazione era un irresistibile teatro. Seduceva i suoi interlocutori parlando di sé e contemporaneamente di loro. A Gide intelligentissimo e bruttino, che si innamorò ai primi incontri di lui, Oscar disse sedendo al caffè: «Non mi piacciono le vostre labbra: sono dritte come quelle di chi non ha mai mentito. Voglio insegnarvi a mentire perché le vostre labbra divengano belle e mosse come quelle di una maschera antica». E da come più tardi riferirà l’episodio c’è da credere che Gide stette beatamente al gioco.
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L’occasione mi induce a segnalare, per chi già non la conosca, una deliziosa raccolta di istantanee critiche e recuperi letterari di Leonardo Sciascia intitolata La felicità di far libri recentemente pubblicata da Sellerio a cura di Salvatore Silvano Nigro. Il motivo di ricordarlo qui sono otto paginette maliziose e impertinenti, da 200 a 208, che riscoprono riproponendoli ai lettori d’oggi due inattesi ritratti di Oscar Wilde dovuti a due giornalisti e scrittori pubblicati nell’ottobre 1897 in occasione d’un soggiorno a Napoli dell’allora fin troppo discusso e maltrattato «decadente inglese», come Matilde Serao definisce in un articolo apparso su «Il Mattino» l’autore del Ritratto di Dorian Gray e di altri testi famosissimi. Troviamo in quel «Moscone», come si intitolava la pungente rubrica di donna Matilde, una sorta di sintesi dei giudizi che la borghesia partenopea dell’epoca dava di un artista che aveva osato sfidare la morale convenuta. Le prime righe del «pezzo», che andrebbe tuttavia letto per intero, sono esplicite e crudeli: «Qualcuno ha annunziato che in Napoli si trovi il decadente inglese che diede così larga copia di argomenti ai cronisti coscienziosi alcuni anni or sono a proposito di un processo ripugnante». «Ripugnante pensando a come i giudici trattarono l’accusato e non viceversa» vorrei obiettare alla Serao di cui sono peraltro un convinto estimatore.
L’altro testo raccolto da Sciascia, uscito sul «Pungolo Parlamentare» in data 10 ottobre 1897, è di Eugenio Zaniboni. Racconta di una sua intervista a Wilde parcheggiato insieme con il suo amante in una elegantissima villa-albergo a Posillipo. Le domande sono scialbe e le risposte più che reticenti. Valgono però i particolari dell’abbigliamento di Wilde descritto minuziosamente da Zaniboni: «Indossava un perfetto vestito d’una insuperabile lana bianca inglese, una ricca camicia di seta dai risvolti a ricami. Sotto il collo della camicia scendeva una cravatta, una striscia vermiglia a contrasto col biancore del vestito...». Più avanti Zaniboni insiste su un particolare crudele: «Uno dei denti incisivi superiori, e propriamente l’incisivo medio di sinistra è un solo pezzo d’oro assicurato alla gengiva e l’oro chiude anche qualche altro dente...».
Non era un vezzo però, povero Wilde. Edmund Wilson, critico sempre concreto e più che attendibile, ha scritto in un saggio intitolato La ricerca del tragico: Oscar «si contagiò di sifilide in seguito a un rapporto casuale, probabilmente con una prostituta». Sì, non stupite, una volta tanto si trattava di una donna. «A quell’epoca – precisa per concludere Wilson —, la cura riconosciuta per la sifilide era quella del mercurio. Nel caso di Wilde il trattamento fu indubbiamente la causa di quei guasti alla dentatura che segnarono in modo permanente la sua fisionomia aggravando l’impressione di ipertrofia e di bruttezza» non sufficienti tuttavia a inquinarne il fascino.