Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  agosto 27 Martedì calendario

In Iran otto scienziati rischiano la pena di morte o 10 anni di carcere perché volevano salvare i ghepardi


Nel parco Pardisan, appena a nordovest di Teheran, vivono due ghepardi asiatici in cattività. Insieme a meno di cinquanta esemplari individuati in aree isolate e poco popolate dell’Iran. Delbar, una femmina, e Koshki, un maschio, sono gli ultimi due sopravvissuti di una sottospecie che una volta era presente nel resto dell’Asia ma che è ormai quasi estinta. Fino a due anni fa, quando la vicepresidente Masoumeh Ebtekar era anche a capo del dipartimento dell’Ambiente, riceveva i giornalisti nel suo ufficio proprio in questo parco. Mentre aspettavi in sala d’attesa potevi studiare su un’enorme manifesto le sette province nell’altipiano centrale dell’Iran in cui gli scienziati avevano monitorato il mammifero. Salvare il ghepardo asiatico era una priorità, al punto che nel 2014 era diventato il simbolo della nazionale di calcio.
Ma l’anno scorso nove ricercatori iraniani impegnati nell’ambizioso progetto di collocare fotocamere per catturale immagini del mammifero più veloce del mondo hanno attirato i sospetti dei Guardiani della rivoluzione e sono stati arrestati con l’accusa di spionaggio. Il corpo delle forze armate creato dopo la rivoluzione del 1979 sostiene che gli studiosi, col pretesto di salvare il ghepardo, abbiano raccolto informazioni su operazioni militari top secret in quelle aree remote. Il direttore della Fondazione per il patrimonio naturale persiano, Kavous Seyed-Emami, che aveva cittadinanza sia iraniana che canadese, è morto in prigione: le autorità parlano di suicidio, ma la famiglia rifiuta di crederci. Quattro colleghi rischiano la pena di morte e altri quattro 10 anni di carcere. Sono tutti legati a quella stessa fondazione no profit che operava in collaborazione con il dipartimento dell’Ambiente, quest’ultimo supportato fino al 2017 da fondi del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo. Un appello firmato da 350 colleghi di tutto il mondo sostiene la loro innocenza, che è stata peraltro confermata da due agenzie governative supervisionate da Rouhani ma ciò non è bastato a farli rilasciare. Gli arresti fanno parte di una repressione che ha colpito accademici e imprenditori con doppia nazionalità o contatti con istituti stranieri, incluso Ahmadreza Djalali, ricercatore di Medicina dei disastri presso l’Università del Piemonte Orientale di Novara, condannato a morte con l’accusa di «spionaggio». Il loro destino è complicato dalle tensioni tra i «falchi» all’interno dei Guardiani della rivoluzione e il governo, che aveva lavorato per l’apertura all’Occidente ma si è visto chiudere la porta in faccia da Trump.
In cella
Un nono scienziato è morto in carcere La famiglia non crede al suicidio
Tra le vittime collaterali non c’è solo il ghepardo; c’è anche il tentativo di affrontare la critica scarsità di risorse idriche causata dall’urbanizzazione e dall’eccessiva costruzione di dighe – progetti dei Guardiani della rivoluzione, i cui interessi economici cozzano con gli allarmi degli ambientalisti. La rivoluzione del 1979 ha rovesciato la monarchia corrotta, ma i «gattopardi» di Teheran ricordano che «bisogna cambiare tutto per non cambiare niente», come nella storia di Tomasi di Lampedusa sul felino siculo simbolo di un mondo in via di estinzione.