Corriere della Sera, 27 agosto 2019
Convivere dopo l’odio
Non sappiamo come finirà, se il lungo odio tra 5 Stelle e Pd diventerà un matrimonio d’amore o almeno d’interesse. Sappiamo qual è la priorità: i posti. Posti, non poltrone, parola che andrebbe abolita: la presidenza del Consiglio e i ministeri non sono pezzi d’arredamento. Ma di questo finora si è parlato. Chi fa il premier, chi fa il commissario europeo. A me l’Economia, a te gli Interni. Ma per fare cosa? Aumentare o abbassare le tasse? Rendere il lavoro più o meno flessibile?
Fare o bloccare le grandi opere? Rifinanziare le missioni di pace o ritirarle?
Il riferimento ai soldati italiani impegnati nel mondo non è casuale. «Non esistono missioni di pace!» proclamò Beppe Grillo la sera del 22 febbraio 2013, davanti a migliaia di militanti riuniti a San Giovanni, un tempo piazza-simbolo della sinistra. Alla vigilia di quelle elezioni il fondatore del Movimento indicò nel Partito democratico il vero nemico, il simbolo del sistema da abbattere. Seguirono l’umiliazione di Bersani in streaming, lo scontro durissimo con Renzi – «Beppe, esci da questo blog!» – e sei anni di polemiche ininterrotte su ogni cosa, vaccini e Tav, scuola e precari, financo sull’autenticità dell’allunaggio e sull’esistenza delle sirene, quelle di Ulisse. Ora, in politica nulla è per sempre e tutto può succedere. Il clamoroso errore di Salvini, che ha mostrato chiaramente i suoi limiti, il voltafaccia di Renzi e la pertinace resistenza dei parlamentari hanno prodotto in pochi giorni una svolta che avrebbe richiesto mesi di dialogo, come quelli che in Germania hanno partorito la Grande Coalizione tra la Merkel e i socialdemocratici (che è in realtà un centrosinistra). Pd e 5 Stelle non hanno tutto questo tempo. Ma più sono distanti le posizioni di partenza tra i due partiti che stanno trattando il nuovo governo, più dovrebbero essere precisi i termini di un accordo. Invece finora si sono sentiti punti talmente vaghi che chiunque potrebbe farli propri. Democrazia parlamentare, ambiente, bene comune: come ha notato Paola Taverna, grillina verace, «manca solo la pace nel mondo». Anche sulla manovra, che pure non sarà una passeggiata, non si è sentito molto, oltre alle solite formule: evitare l’aumento dell’Iva, rilanciare gli investimenti, tagliare gli sprechi. Sì, ma quali? E come? Il Pd fa sapere di avere pronta la sua legge di bilancio, e pure i grillini sono a buon punto con la loro. Però, se davvero stringeranno il patto, ne dovranno fare una sola. Insieme.
L’esperienza fallimentare dei gialloverdi è lì a dimostrare che non si governa il Paese con un contratto, in cui ognuno fa confluire i propri desideri chiamandoli programmi. Tra la sinistra riformista e il Movimento populista (ma lo si potrà ancora definire così?) i motivi di contrasto sono molti. E non riguardano soltanto la Gronda o l’accoglienza dei migranti (sui quali finora Di Maio aveva votato e talora parlato come Salvini). C’è una distanza di linguaggio e di cultura politica, che i 15 voti grillini all’Europarlamento decisivi per l’investitura di Ursula von der Leyen hanno accorciato ma non colmato. A dire il vero, un terreno di incontro si va profilando. È quello della spesa pubblica. A partire ovviamente dal reddito di cittadinanza. Tanto – è il ragionamento – l’Europa chiuderà un occhio, visto che in cambio noi terremo lontano Salvini. Ma i mercati, e probabilmente anche la Germania, non si accontenteranno di questa garanzia. C’è da augurarsi che un eventuale governo orientato a sinistra (vale a dire in controtendenza rispetto agli ultimi test elettorali) non pensi di finanziare la sua politica economica, e di ripianare i dissidi interni, aumentando la pressione fiscale sul ceto medio. Già stare al governo con un’opposizione di centrodestra ben oltre il 40% non sarebbe facile. Se poi, a suon di tasse, all’opposizione passassero tutti i produttori del Nord – già adesso non molto ben disposti —, allora il Salvini oggi caduto nella sua stessa trappola troverebbe un facile appiglio per uscirne.