la Repubblica, 27 agosto 2019
Le stelle che svaniscono. A cominciar da quelle di Banksy contro la Brexit
Fino a poche ore fa, sulla parete di un grande edificio di Dover, era dipinto un operaio che cancellava una stella dalla bandiera europea: quale sintesi migliore per tradurre in arte la Brexit? Già. Peccato che adesso le stelle siano letteralmente scomparse tutte. O meglio: è scomparso pure l’operaio. Cancellazione radicale: è rimasto un ponteggio. Certo, trattandosi di un murale di Banksy, nessun colpo di scena è escluso e tutte le opzioni sono al vaglio, dalla vendita alla rimozione, senza escludere la provocazione (ennesima) dell’autore.
Comunque sia, l’improvvisa sparizione di quelle dodici stelle si presta a mio vedere a più di una riflessione. Tanto per cominciare, per quale motivo le istituzioni europee decisero di darsi come simbolo proprio le stelle, nei primi anni Cinquanta? Eppure di idee ce n’erano altre, tutte assennate, da chi proponeva l’antica croce dei vessilli medievali a chi teorizzava una “E” di Europa grande come un abbraccio. A far convergere sulle stelle non giocò soltanto il modello americano (anche lì una federazione di Stati, come si auspicava divenisse il Vecchio Continente), quanto il fatto che le stelle sono da sempre il simbolo della luce nel buio. Sono la guida che non difetta ai marinai, e quindi – per ogni essere umano – il segno armonioso di un argine allo sbando (così le definiva, non per nulla, lo stesso Kant).
Noi necessitiamo degli astri, per non smarrirci: in essi abbiamo riposto metafore antiche fino dall’inizio dei tempi, per cui non solo la stella di David sigilla l’ebraismo, ma una cometa brillava anche sul presepe di Betlemme, mentre la stella che salvò Bisanzio dai Macedoni svetta ancora su tante bandiere islamiche, accanto alla mezzaluna. Ebbene, a quell’Europa che usciva stravolta dal tunnel dei regimi, dalle macerie reali ed emotive di due conflitti mondiali, sembrò non esserci migliore auspicio che rappresentarsi anche lei così, con un cerchio di stelle di luce, quelle che nelle tenebre ti proibiscono di perderti. A distanza di quasi settant’anni, colpisce allora che qualcuno le stelle le cancelli. Meglio il buio? Sembrerebbe di sì. E dire che negli Stati Uniti, l’aggiunta di nuove stelle alla bandiera era considerata un’occasione di festa: «Più stelle avremo, e più luminoso sarà il cielo» commentò uno dei presidenti, per cui a Filadelfia, il 4 luglio, si teneva una gioiosa cerimonia per accogliere le new stars, che fossero l’Alaska (nel 1959), le Hawaii (nel 1960) o la Groenlandia nel 2020 come tanto sarebbe piaciuto a Trump.
Viceversa, nel 2019 dei Boris Johnson, degli Orbán, dei Salvini e vari altri ringhiatori euroscettici, si preferisce la via del buio alla via lattea. Missing the stars. Sbaglierò, ma non mi sorprende affatto: sono anni che al camminare preferiamo il brancolare, pronti a fare a pezzi per principio chiunque si proponga come guida. Una luce? No, grazie: interruttore spento, off. Per questo, tanto più, non può non far riflettere che questa cancellazione di stelle avvenga su un’opera d’arte. Sarà che un tempo la morte di un’opera prevedeva quasi sempre l’incendio o il furto, se non il bombardamento guerresco dei musei o tutt’al più l’evenienza rara del gesto vandalico. Oggi non più: nel buio – in assenza di stelle polari – è endemica una smania collettiva distruggere, una passione insana per il pulsante “canc”, da cui non si salva neppure quello che in passato meritò il nome di monumento, ovvero “ciò che resterà”.
Niente più rimane: tutto è limitato e circoscritto, tutto deve brillare per il tempo miserrimo di un like, è proibita la luce siderale che si spande nei secoli, così come la raccontava Flaubert per Bouvard e Pécuchet. E così come dagli smartphone cancelliamo di continuo foto e messaggi “per liberare memoria”, così la procedura si è estesa a qualsiasi ambito, sempre col terrore che il passato tolga spazio al presente. “Liberare memoria” è un’espressione odiosa, la detesto. “Riempirci di memoria”, semmai. Ma non va di moda.
La cancellazione è il vero sport del terzo millennio, declinata nelle diverse gradazioni della sottrazione, dell’irreperibilità, della demolizione. E dunque perfino un’opera d’arte può svanire, senza che un’immensa impalcatura crei alcun disagio. Perché dovrebbe? La morte della bellezza è regolare, e chi ne sta al capezzale non la vive come un trauma: siamo talmente assuefatti all’idea della produzione seriale che tutto ormai ci appare ripetibile, o nel peggiore dei casi ricostruibile con illusoria affinità all’originale.
Perché disperarsi, allora, se l’Isis distrugge a picconate le statue dei musei siriani? Le rifaremo. E il sito romano di Palmira? I jihadisti erano ancora impegnatissimi a farlo esplodere, che già una stampante 3d ne ricreava a centinaia di chilometri l’arco monumentale. Va in fiamme Notre- Dame? Pensiamo a una montatura di Macron. Tutto qui? Tutto qui.