la Repubblica, 27 agosto 2019
M5s e Pd non si mettono d’accordo ma il Colle vuole garanzie
Doveva essere l’incontro risolutivo per dare via libera all’intesa sul Conte bis. Invece il summit notturno a palazzo Chigi tra i vertici di M5S e Pd si chiude all’una passata con una nuova fumata grigia. Luigi Di Maio pretendeva da Nicola Zingaretti un accordo al buio: definire la composizione del governo e i contenuti del programma, in testa la manovra economica, solo dopo che il presidente della Repubblica avrà affidato l’incarico al premier uscente. Ma Nicola Zingaretti ha detto no: senza una condivisione di massima su temi e squadra non si può dar via libera all’avvocato pugliese. Con quali garanzie poi?
Ci si rivedrà stamattina alle 11 per provare a sciogliere i nodi ancora rimasti sul tavolo. Ma è già guerra: «Strada in salita sui contenuti e programma, emergono differenze soprattutto sulla finanziaria», fanno sapere al termine i dem. «Dopo 4 ore di incontro il Pd non ha ancora chiarito la sua posizione su Conte. È un momento delicato e chiediamo responsabilità, ma la pazienza ha un limite. L’Italia non può aspettare. Servono certezze», ribattono i grillini. «Certo è che se continuano a parlare solo di nomi e a fare ultimatum, la salita si fa sempre più ripida», la controreplica.
I nodi restano quelli emersi nel corso del primo, brevissimo, vertice fra Zingaretti e Di Maio a Palazzo Chigi nel pomeriggio. È lì che il segretario del Pd ufficializza la caduta del veto su Conte a patto però che ci sia una forte discontinuità sui temi e sui ministeri. Il capo grillino fa subito muro: oltre a rivendicare per il Movimento il nuovo commissario europeo, pretende il Viminale o gli Esteri e di restare numero due del governo, mantenendo lo stesso schema a tre punte dell’esecutivo gialloverde. Il segretario dem trasecola, dice che così non si può fare, bisogna cambiare tutto: schemi, programmi e uomini. Il vice deve essere uno solo e appannaggio del Pd poiché – spiega il segretario— Conte non può più considerarsi un garante del contratto (come con la Lega) ma è un esponente dei 5S a tutti gli effetti, nell’ambito di un patto col Pd tra pari sul programma.
Eppure la giornata era cominciata sotto buoni auspici. Al mattino Nicola Zingaretti fa capire che il veto sul premier uscente è caduto: «Al Paese serve un governo di svolta», dice arrivando al Nazareno, «penso che si debba e si possa andare avanti, bisogna vedersi e confrontarsi». Una probabilità che si rafforza con il passare delle ore. Nel primo pomeriggio il M5S si riunisce in conclave, guest star Davide Casaleggio, per dare via libera all’alleanza con i dem. Alle cinque il Quirinale rende noto il calendario del nuovo giro di consultazioni che non si esaurirà in una sola giornata, come sarebbe stato se non si fosse profilato un abbozzo d’accordo: i partiti principali saranno ricevuti domani, 5S e Pd avranno 24 ore in più per trovare una quadra. Alle 18 Zingaretti vede Di Maio per confrontarsi sulle rispettive richieste, alcune delle quali indigeribili per entrambi; alle 21 l’incontro decisivo viene allargato a Conte e al vicesegretario dem Orlando per sciogliere i nodi più intricati. Che però a notte restano tutti sul tavolo.
Nel corso della giornata sono un paio i segnali a indicare che la partita è ormai sbloccata. Alle 15, nella casa di Pietro Dettori, socio di Rousseau e stretto collaboratore di Di Maio, si danno appuntamento il capo politico del M5S, il presidente dell’Antimafia Morra (in rappresentanza degli ortodossi di Fico), i capigruppo Patuanelli e D’Uva: Grillo, in collegamento telefonico, rimprovera a Di Maio l’apertura del doppio forno con la Lega e ordina di chiudere col Pd, Casaleggio chiede e ottiene che l’accordo passi per un voto sulla piattaforma del Movimento. Il passo successivo è conseguente: al termine Di Maio chiama Zingaretti e gli chiede di vedersi a Palazzo Chigi. Lì i due restano insieme per 20 minuti, un tempo brevissimo che fa presagire il peggio. Anche se Zingaretti resta ottimista: «Il confronto è partito».
Le questioni che restano sul tavolo però non sono da poco. Ma per Matteo Salvini ormai è fatta. Livido in volto, convoca i giornalisti al Senato per denunciare che «il ribaltone è compiuto, vince il partito delle poltrone».
Il partito che voleva le elezioni potrebbe aver perso lòa sua partita, Salvini ma anche Giorgia Meloni che urla all’inciucio e annuncia: «Siamo pronti a scendere in piazza».