ItaliaOggi, 27 agosto 2019
Luigi Grezzana: «Voglio che la gente muoia sana»
Fra Luigi Grezzana e la medicina fu amore a prima vista fin dalle scuole elementari. La madre Lucia aveva notato che il suo bambino era leggermente claudicante. Lo portò dal pediatra, il quale sentenziò: «Sono i dolori della crescita». Ma una mamma, anche se non è laureata in Medicina, intuisce quando i dottori sbagliano. Seguì una visita dal professor Giovanni Scarlini, primario di Ortopedia all’ospedale di Borgo Trento. Al piccolo Luigi fu ordinato di fare qualche passo in ambulatorio. «Ha la poliomielite», concluse il luminare.Di quella diagnosi formulata a colpo sicuro, quasi una sentenza di morte, il medico Luigi Grezzana porta ancor oggi i segni nel piede sinistro, più corto del destro. Pretenderebbe di mostrarmelo, perché nessuno s’è mai accorto della sua lieve anomalia, ma lo dispenso dall’impaccio. «Il virus della polio era qualcosa di terribile, non esistevano cure», racconta. «Albert Sabin e il suo vaccino sarebbero arrivati in Italia soltanto nel 1963. Mi salvarono iniettandomi per settimane il sangue tolto a mia madre, in modo da trasferirmi i suoi anticorpi. Ho perso il conto del numero di queste donazioni. So che fino all’ultimo la mamma mi disse sempre: “È il più bel difetto che hai”».
La morte aveva già bussato a casa Grezzana dieci anni prima che il futuro medico venisse al mondo e quella volta raggiunse il suo scopo: si portò via la giovane Ida, 22 anni. «Era la sorella primogenita di mio padre Silvino. Cadde malata. Siccome non guariva, a un certo punto in famiglia ipotizzarono che fosse posseduta dal demonio. Fu chiamato un frate camaldolese dall’eremo della Rocca di Garda. Stremata dagli inutili esorcismi, la mite Ida fu colta dalla rabbia e scagliò lontano da sé il crocifisso. Fu interpretata come una conferma della possessione diabolica». Invece si trattava di tubercolosi. Non c’erano cure. Morì sputando sangue. Subito dopo, tutte le sue cose – vestiti, lenzuola, coperte, materassi – vennero raccolte nel brolo dietro casa e bruciate. Le pareti della stanza dove Ida si era consumata nel letto furono intonacate a calce viva. «Mi è rimasto solo un suo libro ritrovato in soffitta», dice Grezzana, mentre nella casa cinquecentesca a Campalto di San Martino Buon Albergo mi fa visitare quella che da allora viene chiamata «la camera dei forestieri», immensa, rimasta intatta: Ida morì lì. «Segnato dalla tragedia, mio nonno Luigi dava di matto se io, da bambino, tossivo. Secondo lui non potevano che essere i prodromi della Tbc».
Con queste premesse, era inevitabile che Grezzana nel 1966 si laureasse in Medicina, specializzandosi poi in Gerontologia e in Geriatria. «Poiché si pensava che i geriatri fossero stupidi, per sentirmi intelligente mi specializzai anche in Cardiologia e in Scienza dell’alimentazione». Verona fu la prima città al mondo a istituire nel 1954 una divisione ospedaliera di Geriatria, affidata al professor Giulio Dolfini. In quell’edificio Grezzana ha passato buona parte della vita. Ne è stato il primario dal 1992 al 2009. Torna lì tutte le mattine, essendo direttore del bollettino degli Istituti ospitalieri, Il Fracastoro, fondato 110 anni fa.
Ma il dottor Grezzana è, o è stato, molto altro. Presidente nazionale della Società italiana geriatri ospedalieri. Ideatore del corso superiore di geriatria che da 30 anni richiama a Verona medici e infermieri da tutta Italia, e non solo per i 50 crediti riconosciuti dal ministero della Salute. Cofondatore dell’Associazione multidisciplinare geriatria, ora guidata dal figlio Matteo, primario di Geriatria a Bussolengo e Legnago. Da quattro anni è rettore dell’Università dell’educazione permanente («si chiamava della Terza età, come primo atto le ho cambiato nome»), dove 120 docenti insegnano, gratis, a 3.109 iscritti del Comune di Verona.
A cavallo della Bmw R1200 Gs o della Harley-Davidson Fat Boy, ogni giorno il motociclista Grezzana va a visitare gli anziani, protetto dall’inseparabile chiodo di pelle. Nel 2018 lo scultore Vittore Bocchetta, 101 anni a novembre, lo ha insignito del premio che porta il proprio nome, istituito per riconoscere i meriti di chi fa qualcosa per gli altri. Era la prima volta che lo assegnavano a un medico.
Quando è nato?
Il 22 marzo 1942. Sono il «figlio della licenza».
Che significa?
Fui concepito durante una breve licenza che papà ebbe nella Campagna di Russia con l’Armir. Fatto prigioniero, finì in Siberia. Tornò a casa l’11 novembre 1945, gonfio come un pallone per una pseudo kwashiorkor, la sindrome da carenza proteica che colpisce i bambini malnutriti nei Paesi del Terzo mondo. Era scampato mangiando ghiande. Arrivato nella stazione di Pescantina, pianse all’udire il Va’ pensiero trasmesso dagli altoparlanti.
Perché scelse di fare il medico?
Non volevo avere nulla a che fare con il commercio. E desideravo riscattare la figura di Giovanni, il primogenito di mio bisnonno Silvio. Lo avevano iscritto a Medicina. Credendo che fosse in procinto di laurearsi, suo padre andò in segreteria all’Università di Padova e scoprì che il figlio non aveva mai dato un solo esame. Giovanni scappò in Argentina. Ritornò quando il genitore era in fin di vita. Chiese di salutarlo, ma suo padre biascicò ai familiari: «Non voglio più vederlo», e morì senza riceverlo. Quando io m’iscrissi all’ateneo patavino, il viatico di mio nonno Luigi fu questo: «Piuttosto che tu faccia come mio fratello Giovanni, è meglio se muori».
Triste. Ma che cos’ha contro le attività commerciali?
Niente. Ho visto le sofferenze che procurano. Possedevamo 550 campi a Ronco all’Adige. Ida aveva un moroso, bisognoso d’aiuto. Mio nonno firmò un avallo. La figlia morì. A distanza di 20 anni l’ex fidanzato ebbe un rovescio finanziario. Il nonno vendette il latifondo per far fronte ai debiti. Per lui l’onore era tutto.
Il dissesto ebbe riflessi anche sulla sua famiglia?
Certamente. Psicologici: chi è molto ricco e diventa povero si sente molto più povero di chi lo è sempre stato. E pratici. All’università non potei permettermi una camera a Padova. Facevo avanti e indrè. Per studiare in tranquillità, rimasi per sei anni nella cantina del condominio dove abitavamo. Un freddo boia. La mamma mi fece con i ferri un pullover. Lo indosso ancora. Ha dato il titolo a un libro che ho pubblicato con l’editore Bonaccorso, Il maglione grigio antracite. Molti anni dopo, in Geriatria, un paziente si rivolse ai medici e agli altri malati mentre in corsia facevo il giro del mattino: «Ero un controllore della luce e, quando andavo in piazza Arsenale a rilevare i numeri dei contatori, in uno scantinato trovavo sempre lui, il dottor Grezzana, curvo sui libri».
Dopo la laurea, chi la assunse?
L’ospedale di Borgo Trento. All’epoca il primario di Geriatria era Luigi Bertoni. Ma frequentavo il reparto già da studente, quando c’era il suo predecessore, Carlo Secco. Se in un testo sulla stenosi della mitrale leggi: «Primo tono forte, schiocco all’apertura», ti chiedi: che significa? Ecco, andavo là per capire, per imparare dal vivo. Quando il professor Secco si ammalò – tumore al polmone con versamento pleurico – mandarono al suo capezzale il medico più anziano. Lui s’infuriò: «Quel lì l’è mèio che lo mandì a cusìr i stramàssi», cucire i materassi, perché, bucandolo con l’ago per aspirargli l’acqua, gli faceva male. E chiese che lo curassi io: «Vóio quel butèl mato come un caval, ma de oro».
Era matto davvero?
Forse. Il sabato e la domenica andavo a scuola di bontà nel manicomio provinciale di San Giacomo, diretto dal professor Cherubino Trabucchi. Mi sembrava che un medico, oltreché bravo, dovesse essere anche buono. Quanto ho imparato dagli psichiatri Aldo Cunego e Luciano Bonuzzi!
In ospedale si veniva assunti per concorso?
Macché concorso! Mentre svolgevo il servizio di leva all’Ospedale militare, il professor Bertoni mi diceva: «Ma quando diavolo finisci la naia, che voglio assumerti in Geriatria?». In seguito mi fece curare sua sorella, affetta dal morbo di Hodgkin. Saltavo le licenze per accorciare i tempi. Smessa la divisa, ricevetti da lui una lettera: «Sei assunto».
Che tempi.
Eh, ma non creda che fossero rose e fiori. Diventare aiuto era un’impresa. Non contava nulla che per i consulti sui problemi internistici il grande neurochirurgo Giuseppe Dalle Ore volesse solo me. O che fossi il medico curante di primari di grande fama, come l’oculista Mario Mecca e lo stomatologo Ruggero Cavaliere. O che avessi salvato monsignor Emilio Venturi, che era stato segretario dello zio Giuseppe, il vescovo che preservò Chieti, facendola dichiarare città aperta, durante la Seconda guerra mondiale.
Monsignor Venturi rischiava di morire?
Sì, per una pleuro-broncopolmonite, aggravata da un’emorragia digestiva che le emotrasfusioni non riuscivano a dominare. Convinsi il primario chirurgo più bravo dell’ospedale, il professor Elio Pasquali, a operarlo immediatamente, nonostante i rischi dell’età avanzata. In sala operatoria assistetti a un fatto miracoloso: il cuore del prelato si fermò per almeno due minuti e poi riprese a battere. Al risveglio ci aspettavamo di dover fare i conti con un importante danno neurologico. Invece niente.
Davvero prodigioso.
Ma la degenza in ospedale lo prostrò a tal punto che spesso lo sentii esclamare, rivolto verso il crocifisso appeso di fronte al suo letto: «Me la togo anca con Lu». Alla sua morte, mi fece avere una tela, una Madonna della scuola di Raffaello. La tengo in camera. Da allora curai molti suoi confratelli, tanto che, quando Giovanni Paolo II venne in visita a Verona, il vescovo Giuseppe Amari volle presentarmi al Pontefice così: «Santità, questo è il medico che interpello quando i miei preti sono molto malati». Io ero imbarazzatissimo, perché avevo rischiato di mancare all’appuntamento: all’arrivo in vescovado, mi ero accorto d’aver lasciato a casa la giacca nera. Mi salvò mia moglie Luciana, che a tempo di record, guidando come una pilota di Formula 1 sul tragitto Verona-Campalto e ritorno, mi riportò a casa per prenderla. Aggrappato ai sedili della Panda, io le ripetevo: lasciamo perdere il Papa, non me ne importa niente, non si può morire così.
Uomo di poca fede.
Avevo come referente culturale e spirituale l’abate di San Zeno, monsignor Ampelio Martinelli, mio paziente. Fu il primo a telefonarmi quando divenni primario della Geriatria a Verona. Mi disse: «Sei stato bravo. Ti prego di non cambiare mai, perché ricordati che ciò che fa la differenza, casomai, è l’umiltà. E sii buono, se puoi».
Un vescovo mancato.
Lo stimavo tantissimo. Un giorno ero da lui in canonica. Entrò trafelato il sacrista: «Monsignor, in césa ghe el principe Carlo». Gli rispose: «Non lo aspettavo. Ho altre cose da fare». E si rifiutò di andare a ricevere l’erede al trono d’Inghilterra che non gli aveva preannunciato la visita.
Che professione è quella del geriatra?
Difficilissima. Il suo obiettivo è che la gente muoia sana. Ma diventa irraggiungibile quando nell’anziano si rompe l’equilibrio. Bastano un lutto, la solitudine, un dolore e tutto si complica. Due giorni fa ho visitato una signora del 1943. Ho colto in lei la disperazione. L’ho interrogata: la figlia, bellissima, sta perdendo capelli, ciglia e sopracciglia a causa di un forte dispiacere. La mamma, quasi per empatia, ha smesso di camminare.
Lamentarsi del proprio stato di salute, esercizio tipico dei vecchi, serve a qualcosa?
No, non va bene. Bisogna guardare avanti. Il che non significa essere stupidi, ma saggi. Speranza e ottimismo sono i primi farmaci. Gli anziani hanno bisogno di società, di libri, di musei, di chiacchiere, di pizzerie, di giornali, di Lorenzetto... Campa più a lungo chi vive nelle città dove ci sono le polveri sottili, epperò è circondato dagli altri, che non chi abita da solo in un luogo ameno.
«Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti», ammonisce il salmista. Ha senso prolungarli ricorrendo a terapie infinite e condannando i vecchi all’ isolamento affettivo?
Sì. Il settantenne di oggi è come il cinquantenne di ieri.
Quanto incide l’Alzheimer?
Lancet, che è la Bibbia di noi medici, ha condotto una ricerca sull’incidenza del morbo nella società, scoprendo che è aumentata del 25 per cento in Cina e Giappone, diminuita in Europa, rimasta stabile in Nigeria. La cura non c’è. Ma lavorando sui fattori di rischio – stile di vita, ipertensione, malattie cardiovascolari, depressione, ipoacusia – le possibilità di ammalarsi calano del 33 per cento.
Che c’entra l’ipoacusia?
Chi è sordo e rifiuta la protesi acustica, si isola, non ha contatti sociali. Resta solo. Visito molti anziani che vivono con le loro famiglie. Stanno benissimo. Dove abiti? È una delle prime domande che pongo ai miei pazienti. I vecchi hanno la sindrome del corallo, il quale, crescendo, ingloba ciò che gli sta intorno e dopo molti anni si trasforma in quella meraviglia di pietra che tutti conosciamo. Per l’anziano è uguale. Tutte le cose che gli stanno attorno diventano sue: il paese, la piazza, la tavola, la sedia.
Come s’immagina il suo futuro da vecchio?
Bene, perché dai miei pazienti ho imparato tantissimo. Sono i miei maestri. Ci ho persino scritto un libro, Geriatri ladri di saggezza.
C’è un modo per prepararsi alla vecchiaia?
Avere tanti pensieri per non avere pensieri. Nel 1979 mi capitò un pauroso incidente d’auto. Sei mesi di ospedale. Dicevo a mia moglie: devo contrarre un debito, perché per restituire i soldi mi tocca lavorare, e se lavoro guarisco.
La fede aiuta?
Molto, molto. Senza dubbio.
Ho notato che i vecchi giornalisti, ne cito uno morto e uno vivo, Indro Montanelli ed Eugenio Scalfari, non sono mai caduti per terra. Com’è che molti anziani «normali» invece si fratturano il femore?
Ho elaborato uno studio in proposito. L’anziano non teme l’Aids o l’Isis: ha paura di cadere. Casca per terra più in casa che fuori, più scendendo le scale che salendole, più in bagno che in camera. Molto dipende dall’abuso di benzodiazepine assunte per dormire, come Tavor, Halcion, En, Lexotan, che deprimono la forza muscolare e la memoria.
Gli anziani costano. Teme che si arriverà all’eutanasia di Stato?
No. Sarebbe una follia. Io non riesco nemmeno a immaginarmela una società senza i vecchi. Sono tutto, per noi: la memoria, il confronto, la guida. Senza di loro la vita sarebbe infelicità assoluta.
La vecchiaia non è di per sé stessa una malattia, come sosteneva Terenzio Afro?
Neanche per sogno! È una grazia. L’unico modo per non morire giovani.
L’Arena