la Repubblica, 27 agosto 2019
La meritocrazia è l’arma vincente cinese
Ha avuto un collaudo di quasi due millenni: dieci volte più lungo dell’esperimento democratico. Voltaire fu uno dei più noti ammiratori occidentali dell’Impero Celeste, prima amministrazione pubblica a selezionare i dirigenti in base alle competenze (gli esami per mandarini). Il “modello Cina” 2.0, con qualche prestito da Singapore, nell’ultimo quarto di secolo ha esibito risultati più che rispettabili: crescita, lavoro, benessere, modernità, innovazione. E ora il sorpasso sull’America è già realtà in alcuni settori. Con quali regole? Autoritarismo è un termine incompleto. Comunismo, è una finzione. Un grande studioso di Confucio ci propone di considerarlo come un sistema “meritocratico”. Daniel A. Bell, canadese, ha fatto scalpore negli Stati Uniti con le sue tesi. Qualcuno lo ha accusato di essere un’apologeta di Xi Jinping. Ma in una fase in cui le liberaldemocrazie perdono sia “performance” che consensi popolari, la sua analisi della meritocrazia applicata alla politica merita attenzione. Lo intervisto a distanza, inseguendolo in viaggio tra la Cina e l’America, mentre esce in Italia il suo Il modello Cina edito dalla Luiss University Press. Putin ha detto che le liberaldemocrazie occidentali sono condannate, perché non forniscono i risultati che la maggioranza dei cittadini desidera. Questa critica sarebbe più credibile se venisse da Xi Jinping. Il governo cinese ottiene da tempo risultati assai superiori a quello russo. Perché Xi non è altrettanto esplicito? «Xi, a differenza di Putin, non sente una minaccia politica diretta dall’Occidente. Inoltre Xi riconosce che diversi sistemi politici sono adatti a seconda dei rispettivi paesi, in base alle dimensioni delle nazioni, alla loro cultura politica, alle specifiche condizioni nazionali. Le nazioni occidentali con una lunga storia di democrazia liberale possono usare le elezioni per scegliersi i leader; la Cina con la sua lunga storia di meritocrazia politica può usare meccanismi meritocratici per selezionare e promuovere i suoi leader. Perciò i leader cinesi non fanno il tifo per la caduta delle liberaldemocrazie, finché l’Occidente non interferisce sulle loro scelte». Nel libro lei difende i sistemi di governo dove i leader vengono selezionati in base alla loro competenza. In alcune democrazie occidentali – Stati Uniti, Regno Unito, Italia – delle maggioranze assolute o relative di elettori hanno gli esperti, i tecnocrati, le élite. Chi ha eletto Donald Trump, Boris Johnson o Matteo Salvini non sembra cercare la professionalità o l’esperienza. L’Occidente va nella direzione opposta rispetto al modello cinese? «Si può parlare di un modello cinese solo in un contesto cinese o asiatico. Io lo collego all’ideale di una meritocrazia “vertical-democratica": dove la democrazia prevale ai livelli inferiori di governo, la meritocrazia prevale al vertice, e tra i due livelli possono esserci degli esperimenti. Detto questo, anche nelle liberaldemocrazie occidentali esistono elementi meritocratici e sono stati effettivamente indeboliti negli ultimi anni. In Europa, l’Ue fu concepita in modo da assicurare un governo meritocratico a livello centrale, ma quei meccanismi non funzionano più. E con l’ascesa del populismo ci sono ancora meno tutele per prevenire “il popolo” dallo scegliersi leader senza esperienza e senza un curriculum di scelte politiche competenti». Lei vive e lavora in Cina. Quanto è stato discusso il suo libro, incluse le parti più critiche? Quanto è aperto il dibattito politico dopo anni di “cura Xi Jinping”? «Il mio libro è stato recensito e dibattuto. La reazione è diametralmente opposta rispetto a quella che ho sollevato in Occidente. Poiché io difendo un ideale sistema cinese in cui c’è democrazia ai livelli di governo locale, e meritocrazia nelle sfere più alte del governo centrale, la critica più diffusa in Occidente è che ci vorrebbe più democrazia ai vertici di Pechino. Al contrario tra i lettori cinesi la reazione più diffusa è la richiesta di maggiore meritocrazia in basso. Perché le elezioni nei villaggi spesso sono segnate dalla corruzione e i cittadini non ne ricavano benefici». Le proteste a Hong Kong sembrano dare torto ai sostenitori del modello cinese. Anzitutto, i cittadini di Hong Kong pur essendo cinesi quel modello non lo vogliono. In secondo luogo, se i governanti di Pechino sono davvero esperti e competenti, perché sono stati spiazzati dalla protesta? «I leader politici nel mondo reale non possono prevedere il futuro. Né prepararsi per tutti gli scenari. Quello che possono fare è imparare dai propri errori e una meritocrazia funziona pienamente se i governanti sanno trarre lezioni dagli sbagli e dagli incidenti. Finora per fortuna i leader cinesi non hanno usato una repressione brutale – nello stile di Piazza Tienanmen 1989 – nei confronti delle agitazioni di Hong Kong. All’epoca della precedente ondata di contestazione, il cosiddetto “movimento degli ombrelli” in favore della democrazia, i governanti lasciarono che gli studenti si stancassero e disturbassero il resto della cittadinanza, fino a quando le proteste si esaurirono da sole. Dobbiamo sperare che accada anche stavolta, benché le proteste quest’anno siano diventate più violente e possono rendere necessarie misure più energiche». Come fa un sistema politico meritocratico a evitare di isolarsi dalle critiche dei suoi cittadini, quando commette degli errori? Come fa a non trasformarsi in un’oligarchia che si autoperpetua, impedendo ai cittadini di eliminarla se ne sono scontenti? «Quando scrissi la prima edizione del mio libro il problema numero uno era l’abuso di potere a fini di guadagno. Dopo di allora, le forti misure anticorruzione sono riuscite a ridurla in modo significativo. Tuttavia la campagna anticorruzione ha colpito così tanti dirigenti governativi, che oggi non mancano gli avversari politici in cerca di rivalsa contro l’attuale governo. A sua volta questo ha reso l’attuale leadership più paranoica, e spiega l’eliminazione di limiti temporali al mandato di Xi Jinping. Dunque siamo daccapo, alle prese col rischio che i leader non vogliano mollare il potere. Per fortuna esiste ancora un sistema collegiale che impedisce una dittatura personale sullo stile di Mao». Sembra che stiamo avanzando verso un nuovo tipo di guerra fredda, uno scontro geoeconomico frontale fra Stati Uniti e Cina. Lei cosa pensa dello scenario “trappola di Tucidide”, spesso citato come ammonimento da Xi? «Questa America sembra decisa a non concedere spazio a una potenza in ascesa come la Cina. Nessuna potenza può rimanere la “numero uno” economicamente, politicamente, culturalmente, per sempre».