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 2019  agosto 26 Lunedì calendario

La storia di Chico Mendes

Due ignoti trafficanti mi offrirono un passaggio sul loro minuscolo velivolo che sembrava l’aereo impazzito di Topolino, risparmiandomi ore di jeep sulla pista rossa che attraversava la foresta amazzonica fino a Rio Branco, la capitale dello Stato brasiliano di Acre. Non so cosa ci facessero quei due a Xapuri, lo sperduto villaggio di raccoglitori di caucciù in cui pochi giorni prima, il 22 dicembre 1998, un sicario aveva assassinato, appena uscito dalla sua baracca di assi di legno sospesa sul fango, tinteggiata d’azzurro e con le persiane rosa, il fondatore del sindacato dei seringueiros e dell’Alleanza del popolo della foresta: Chico Mendes, 44 anni. Era appena rientrato da uno dei suoi innumerevoli viaggi che lo avevano portato fino alla sede della Banca Mondiale, a Washington, per denunciare la deforestazione dell’Amazzonia. Andava in cortile a farsi una doccia. Morì sul colpo. Da incosciente, salii a bordo e cominciammo a volare a bassa quota, sballottati dai temporali. La stagione delle piogge rendeva bellissime anche le aree dov’era già passata la grande queimada. Dove cioè i peones in primavera avevano tagliato i fusti più esili di modo che seccassero ai piedi degli alberi secolari. Quando arriva l’estate, basta un po’ di petrolio per appiccare il fuoco. Il cimitero degli alberi era colorato di un verde smeraldo, interrotto da sinuosissimi fiumi, rossi per la terra che trascinano. Panorami bellissimi, non fosse per i neri fusti inceneriti che li costellano qua e là spettralmente come lugubri mozziconi. Sono passati trent’anni dacché visitai quel teatro di uno scontro feroce, l’incendio del polmone della terra che non ha smesso di estendersi, ma non posso dimenticare i personaggi che lo popolavano e che mi ricordavano i romanzi di Gabriel García Márquez. A cominciare dal parroco Luigi Ceppi, nato in Lombardia a Lentate sul Seveso, che vive tutt’ora laggiù dove tutti lo chiamano Luis. Siamo rimasti amici, lo incontro quando torna in Italia e l’ho risentito in questi giorni di preparazione del Sinodo Speciale che papa Francesco ha voluto intitolare “Nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale”. Si terrà a Roma dal 6 al 27 ottobre prossimi. Il testo preparatorio costituisce un vero e proprio documento politico rivoluzionario e vede tra i suoi protagonisti i portavoce di quella che chiamano la “Chiesa indigenista” e i superstiti rappresentanti di una Teologia della Liberazione, a lungo emarginata. Uniti nel denunciare il “neocolonialismo feroce, mascherato da progresso”, che ha trovato il suo nuovo artefice nel presidente brasiliano Jair Bolsonaro. Predicano una vita di comunione con la terra, l’acqua, gli alberi, gli animali, facendo propri gli insegnamenti delle culture precolombiane, a cominciare dalla devozione per la Madre Terra. Strano che debba ricordarcelo un documento vaticano, ma l’Amazzonia rappresenta dal 30 al 50 per cento della flora e fauna del mondo, il 20 per cento dell’acqua dolce non congelata, più di un terzo dei boschi primari.Vi abitano, in isolamento volontario, fra i 110 e i 130 popoli indigeni. La tomba di Chico Mendes, nel camposanto di Xapuri, è un brutto cubo di cemento ornato da fiori colorati simili alle enormi farfalle amazzoniche. Con l’aiuto di Luis Ceppi e del suo coraggioso vescovo dom Moacyr Grechi, scomparso pochi mesi fa, ebbi modo di incontrare alla colonia penale di Rio Branco il boss dei fazendeiros di Xapuri, Darci Alves da Silva, che aveva commissionato a uno dei suoi ventuno figli l’omicidio del Gandhi dell’Amazzonia, colpevole anche di aver contribuito alla formazione del Partito dos Trabalhadores insieme a Luiz Inácio Lula da Silva. Darci si era costituito spontaneamente, confidando nell’amicizia dei suoi carcerieri. Lo circondavano tre delle sue cinque mogli. Natalina, la veterana, si compiacque di magnificarmene la virilità: «Quando ce l’ha ritto, è lungo come sette scatole di fiammiferi messe in fila. E non lo fa mai meno di quattro volte al giorno». Il parroco Luis Ceppi partecipava agli empate, l’occupazione dei boschi di alberi della gomma destinati al rogo. Traversava a piedi la mata per decine di chilometri fra Xapuri, Brasileia e Assis Brasil, fino al confine col Perù. Vegliava sulle anime dei seringueiros ma anche dei loro aguzzini. Quando nella chiesa di Xapuri gli toccò di versare l’acqua santa sul capo dell’ultimo figlio di Darci, lo fece con queste parole: «Io ti battezzo, anche se le mani che ti reggono sono sporche di sangue». Oggi è invecchiato e ha il cuore malconcio, ma il volto barbuto di Luis, circondato da lunghi capelli, mi ha sempre impressionato per la somiglianza con Mauro Rostagno. Fu una sorpresa, per un prete ribelle come lui, essere ricevuto a Roma da papa Francesco nel 2013, venticinquesimo anniversario della morte di Chico Mendes. Erano gli anni della riabilitazione della Teologia della Liberazione, quando prendeva forma quella profonda revisione del rapporto della dottrina cattolica con il Creato culminata nell’enciclica “Laudato si’”: dire basta a un sistema economico fondato sullo scarto, assoggettato al “paradigma tecnocratico” e ai profitti finanziari. Nel corso di questi trent’anni il destino dell’Amazzonia è rimasto ai margini, ignorato nei vertici governativi dei potenti della terra. Argomento riservato ai movimenti ecologisti, ai forum sociali no global, citato di sfuggita da politici. Ricordo nel marzo 1989, appena rientrato in Italia, con quanta ironia venne trattato Achille Occhetto che dedicò alla deforestazione dell’Amazzonia, polmone del pianeta, un capitolo della sua relazione al diciottesimo congresso del Pci, in un Palasport di Bologna. Nel frattempo però la memoria di Chico Mendes, analfabeta sindacalista della foresta divenuto protagonista nei raduni in cui prendeva forma l’idea che i diritti sociali non vanno disgiunti dalla riconversione ecologica, si è trasfigurata nel mito. Sono innumerevoli le associazioni del commercio equo e solidale, le scuole, le aree verdi, a lui dedicate. Quello che forse non si poteva prevedere è che sarebbe stato un pontefice cattolico a rimettere l’Amazzonia al centro dell’agenda politica mondiale, predicando l’”armonia multiforme” e la “felice sobrietà” come vie di salvezza di un pianeta altrimenti destinato alla, testuale, “morte dell’umanità”. Ricordo, poco prima della mia partenza dall’Acre, il dialogo con un addetto alla deforestazione, al cancello della fazenda Paranà: «Sei italiano? Adesso venite a farci la predica? Voi però le avete bruciate tutte, le vostre foreste. Troppo comodo, senza asfalto e senza prenderci la foresta non avremo mai lo sviluppo. L’Amazzonia è nostra, non avete il diritto d’impicciarvi». Via Skype, Luis Ceppi mi racconta che, delusi dalla corruzione dei dirigenti del Pt di Lula, l’82% degli elettori della regione amazzonica di Chico Mendes hanno votato per Bolsonaro. «Siamo caduti dalla padella nella brace. Ma non smetteremo di ricordarvi che mangiate carne verde, frutto del disboscamento e dell’assassinio di molti popoli. La fine dell’Amazzonia sarà anche la vostra fine»