Robinson, 25 agosto 2019
La strana coppia di Jacobson
Immaginate una donna della upper class londinese di novant’anni, affetta da demenza, che ha una vaga percezione della sua malattia. Vive in una casa lussuosa con due badanti straniere che si punzecchiano in continuazione. Da diversi matrimoni ha avuto dei figli – due? Tre? Non riesce a ricordare nemmeno il numero esatto – che fanno politica in fazioni avverse e che portano nomi assurdi, che non hanno in comune nulla se non una madre difficile da gestire.Davanti a voi troverete Beryl Dusinbery: una donna che sconta una grande solitudine, insieme con la sua malattia e l’incapacità di essere costante negli affetti e nei legami. Tutto di lei è mutevole, persino il nome che ha cambiato in principessa Schweppessodawasser.Specularmente, pensate a un uomo anziano, solo, con un’intelligenza ancora vivace e un corpo che invece ha tirato i remi in barca, che passa i pomeriggi a leggere le carte ad attempate ( e facoltose) signore che vogliono sbirciare nel futuro. Vive sopra un ristorante cinese ed è costretto a programmare i suoi itinerari per la città tenendo conto della presenza dei bagni pubblici a causa di un serio problema urinario. Avrete Shimi Carmelli, un uomo dimesso ma dignitoso, che vive in uno stato di rassegnazione perenne.Ecco le premesse di Su con la vita ( Live a Little nella versione origina-le), il nuovo romanzo di Howard Jacobson, vincitore del Man Booker Prize nel 2010 con L’enigma di Finkler.Apparentemente, i due protagonisti non hanno nulla in comune se non la vecchiaia. Diversa è la loro estrazione sociale, differente il modo di approcciarsi all’esistenza: Beryl ha vissuto con leggerezza gli incontri della sua vita – matrimoni compresi – tanto da non rendersi conto ad esempio che uno dei suoi “fidanzati” era morto nella vasca da bagno da ben tre giorni. Shimi, invece, si è portato addosso dall’infanzia il senso di colpa per un gesto che ne ha pesantemente condizionato l’esistenza, allontanandolo dal padre e dal fratello.Dalle parole di Beryl sembrerebbe che sia stata amata e abbia amato molto. Tuttavia la parola amore è inadatta, poiché questa donna bizzosa, che conosciamo attraverso i suoi racconti negli ultimi anni dell’esistenza, è una creatura tanto brillante quanto dispotica ed egoista. È capace di ricamare norme di comportamento draconiane su tele di lino incorniciate e pretendere che figli e badanti le rispettino alla lettera.Beryl è respingente, fastidiosa. Ma è anche ironica e vitale nella consapevolezza intuitiva della demenza che le porta via parole e ricordi. Jacobson le affida la possibilità di parlare dei rapporti umani senza le forzature imposte dalla buona educazione. Quest’aspetto emerge nei dialoghi tra la principessa e i suoi figli, o con le due badanti Euphorya e Nastya, che la donna tiranneggia con un linguaggio che oscilla tra l’offesa e il paternalismo.Dall’altra parte, in un alternarsi di capitoli, il pacifico Shimi. A prima vista, sembra una creatura amorfa, insignificante: non ha rapporti con l’altro sesso, a meno che non siano mercenari. È tenuto a distanza dal padre, che è sparito dopo la morte della moglie, non nutre affetto per il fratello, più furbo e determinato di lui. Non ha che pochi, sporadici, contatti umani. Shimi è una monade.Da queste figure, a tratti caricaturali, si dipana una vicenda che termina con un finale che non ci si aspetta. In realtà, Su con la vita è un romanzo giocato sul “ciò che non ci si aspetta”. Non ci si aspetta che una madre possa disinteressarsi dei figli e che viva la maternità senza sensi di colpa, anzi: che mostri quasi fastidio nei loro confronti. Non ci si aspetta che due anziani abbiano voglia di vivere ancora, in maniera irriducibile. Non ci si aspetta che della vecchiaia e della demenza si possa ridere. I temi affrontati nel romanzo sono numerosi e delicati: la malattia di Shimi e Beryl è la lente che l’autore usa per mostrare come la società occidentale non sia ancora in grado di accettare che il disfacimento del corpo e della memoria è parte della vita umana. Che l’epilogo dell’esistenza è qualcosa di doloroso, e lo è ancora di più il suo preludio, la malattia, tanto da rimuoverne il pensiero e affidare l’accudimento degli anziani ad estranei.Attraverso i dialoghi scoppiettanti tra Nastya ed Euphorya, straniere provenienti rispettivamente dall’est Europa e dall’Africa, Jacobson parla del ruolo dei caregiver stranieri nella società inglese, indicando quanto siamo ancora lontani da una vera integrazione, con delle considerazioni ampiamente estensibili alla nostra realtà. Ma l’abbondanza di tematiche rappresenta il suo principale limite: voler parlare di tanto usando un linguaggio pirotecnico che finisce per sommergere il lettore. La lingua di Jacobson è la sua cifra distintiva: fluviale, sarcastica, dissacrante. È una scrittura che scolpisce i personaggi, li rende spigolosi. Un’opera di maestria e di stile che stavolta sembra debordare in alcuni passaggi e toglie credibilità alle voci narranti. L’autore è dotato di uno humour politicamente scorretto, a tratti inglese a tratti ebraico, che regala momenti di riflessione e di divertimento ma che altresì costringe il lettore a concentrarsi sul come si dice una cosa più che su cosa si dice. Alla fine, resta un sorriso indulgente per la fragilità dei personaggi, e un retrogusto amaro: la vita può essere sorprendente persino nella tristezza, e forse è davvero così.