Il Messaggero, 25 agosto 2019
Le Divagazioni di Gadda
WIMBLEDONX
Esce a giorni il libro più importante dell’anno, anzi degli ultimi decenni, grazie alla meritoria impresa di Adelphi, che persegue l’opera omnia di Carlo Emilio Gadda. È una raccolta di saggi, saggi brevi, nome che si suol conferire a un siffatto genere di lovorucci, come scriveva lo stesso Gadda nel 1958. S’intitola Divagazioni e garbuglio. Saggi dispersi, ed esce con un’accuratissima nota della curatrice Liliana Orlando, che bisogna leggere sin dall’inizio, per gustare ogni singolo scritto di questi sessanta, composti tra il 1927 e 1968, e ora suddivisi in cinque sezioni (letteratura, lingua e dialetti, arte, spettacolo, tecnica e società). Entrerete così nella più profonda, gioiosa, eclettica e strabiliante festa della letteratura, dove si salta da Manzoni a Paul Morand, da Balzac a Bonaventura Tecchi, si parla di senza alcuna ipocrisia di Montale e di Moravia, di Bacchelli e di Giuseppe Berto, di Catullo e di Quasimodo. «Il Nobel a Salvatore Turiddu non è che uno dei tanti episodi dell’asineria italiana e svedese», commenterà nel 1959.
IL LAVORO
Gadda, infatti, prima di essere un grande scrittore, era un grandissimo e prolifico saggista, molto consapevole di sé e della originalità, quantunque funestato dallo spettro di un’omerica mendicità, infiniti sensi di colpa per aver abbondato il posto sicuro di ingegnere per vivere della propria penna, salvo scoprire le miserie del mestiere, con articoli di quattro colonne pagati 100 lire e oggi per noi di valore incommensurabile, visto che dovrebbero entrare nelle antologie delle scuole di ogni ordine e grado, tanto sono magnifici, esilaranti, imprevedibili e istruttivi.
Scrivendo di sé in terza persona, Gadda stesso confessa di essere uno scrittore che si documenta: interroga filologi, brigadieri, sarte, trippai, oculisti, agronomi e annota termini tecnici, coglie al volo preziose sfumature di linguaggio Non scrive a macchina, e non manda le cartelle appena tolte dal rullo in tipografia; adopera morbidi perry, un nerofisso scorrevole, carta quadrettata e in genere compie cinque o sei stesure di ogni lavoro. Nei momenti di riposo legge trattati di fisiologia, Guicciardini, Baudelaire e Scribe, o si propone e risolve problemi di analisi matematica. Per questo le sue pagine sembrano scritte con la mitragliatrice: la sua scrittura è nera, violenta e perfettamente colorata. Nei suoi riguardi Croce si è così espresso: Gadda ha la mano pesande, la mano pesande (sic).
E questo solo dettaglio fonetico basterà a conquistare i lettori, forse rari, ma in grado di apprezzare l’ironia e l’autoironia. Era il suo modo sardonico e disperato di rispondere alle accuse di tumescenza barocca, di difendere il ricorso al frasario gergale dei pratici e di rivendicare l’eccentrica vastità dei suoi interessi che includevano la scienze e la tecnica argomenti invisi invece ai laureati scrittori della Italia, tant’è che udirli periodare ricade per lui fra i castighi orrendi e meritatissimi.
Scriveva per riviste, giornali, rassegne letterarie, Solaria, l’Ambrosiano, la Gazzetta del Popolo, il Mondo, prima di trovare il porto sicuro della Rai. Scriveva saggi, recensioni, note critiche. Apologia manzoniana, per esempio, il primo scritto di questa nuova raccolta, uscì nel 1927 su Solaria ed è un saggio sfolgorante. È una specie di interpretazione del romanzo manzoniano, fatto più di intuizioni che di pedanteria Ha tinta lievemente polemica contro il vituperio, ormai superato, che hanno fatto di quel povero diavolaccio scrive al direttore Alberto Carocci mandandogli il pezzo. Il Manzoni mi è sempre stato simpatico e caro, anche assai prima della recente resurrezione. Credo poi che, tecnicamente, chi vuol prepararsi muscoli forti, dovrebbe cercare almeno di interpretarlo. Il mio schizzo è appunto un avviamento a studi di interpretazione.
L’INTROSPEZIONE
Ed ecco che lo schizzo in realtà è un pozzo di intelligenza senza fondo e un esercizio di introspezione Con un disegno segreto e non appariscente esordisce Gadda su Manzoni egli disegnò li avvenimenti inavvertiti: tragiche e livide forme d’una società che il caso trascina per un corso di miserie senza nome, se può chiamarsi caso lo spostamento risultante della indigenza, della bassezza, della cieca ignoranza, della ignavia politica d’una razza, dell’avidità e dell’orgoglio d’un’altra. Se può chiamarsi caso il tedio d’una vita disorganica e priva di fini, che fa ricercare nel male i simboli della finalità e, poi, i veleni di un più fosco desiderio, d’una più orrida discesa verso cupi silenzi.
E leggendo questo scritto sontuoso, dove Gadda si sofferma sui tocchi tenui e di grave tristezza del barocco lombardo, sulla curva semplice ma inimitabile della cornice e della mensola, dei boccali d’argento liscio, sulla luce in cui si placano gli occhi e lo strazio di Lucia non possiamo ripensare alla sua inesauribile fedeltà a Manzoni, che per lui fu un modello, un alter ego, una continua fonte di ispirazione, e fino alla morte un compagno di vita, come racconta Pietro Citati, che da giovane passava pomeriggi interi nella sua casa di via Blumensthil a leggergli ad alta voce i Promessi Sposi.