il Fatto Quotidiano, 25 agosto 2019
Carlo Delle Piane raccontato da Avati: «Era "il più brutto di Roma" e voleva essere risarcito dalla vita. E dal cinema»
“Delle Piane era brutto, anzi, il più brutto: come Dalla”. Per Pupi Avati ha già parlato il suo cinema, che da Una gita scolastica a Regalo di Natale ha fatto di un caratterista di alterno successo un protagonista da premiare, sicché il cordoglio per la perdita di un sodale può conservare le asperità della verità: “Apparentemente difficili da imparentarsi, le vicende di Carlo e Lucio sono invece analoghe: avevano un enorme senso di colpa per la propria fisicità”.
Avati, si spieghi.
Non essendo esteticamente omologati, tra virgolette “normali”, si sentivano vastamente deprezzati, ineluttabilmente disprezzati.
Delle Piane trovò il primo set a soli dodici anni: la trasposizione di Cuore, anno 1948, con Vittorio De Sica e María Mercader.
Il regista Duilio Coletti batteva la Capitale alla ricerca di un bambino brutto per incarnare Garoffi, non lo trovava ed era disperato: “Più brutto, più brutto!”. Finché non gli misero davanti Carlo, prontamente ribattezzato “il più brutto di Roma”. Non credo un simile primato potesse esaltare un bambino, ma tant’è: come Dalla, lo scherzo della natura, lo sgorbio Carlo Delle Piane si mise ad aspettare il risarcimento della vita.
Così fu?
Be’, partecipò attivamente alla nascita di un cinema italiano straordinario, quello dei Totò, dei Fabrizi e dei Sordi. Poi, ne trovò un altro, infinitamente meno straordinario, in cui gli apparecchiavano particine da freak. Nondimeno, i suoi occhi strabuzzati riuscivano a salvare scene di film irrecuperabili.
Poi arrivò Avati: non Pupi, ma Antonio.
Ero un autore sessantottino, almeno mi sforzavo di esserlo, sicché lo squadravo con la supponenza e la diffidenza di chi guarda un cinema minore, financo imbarazzante, con cui non ha nulla da spartire. Mio fratello insistette, lo incontrava al Filmstudio, condivideva la passione per i film d’autore e Billie Holiday, e pretendeva: “Ha dentro di sé un altro mondo, che non corrisponde a quello di Pecorino”, come lo bollavano a Roma.
Sicché nel 1977 ebbe una parte in Tutti defunti… tranne i morti.
Antonio me lo fece trovare vestito e truccato da ispettore stile Marlowe, io risi e cedetti. Scoprii che Carlo aveva molto di sé da dire, e che davvero voleva essere risarcito dalla vita: sono quelli in cui mi riconosco di più, quanti hanno subito ingiustizie dolorose.
Che attore era Delle Piane?
Uno dei tre, e solo tre, a cui non avevo bisogno di dire niente per ritrovarmi con qualcosa di più di quanto mi aspettassi: era capace di intuire, immedesimarsi e appropriarsi di un ruolo in modo totalizzante. Gli sarò sempre riconoscente, sebbene le nostre strade a un certo punto si fossero separate: un grande equivoco, Carlo pensò di poter camminare da solo, di ambire esclusivamente a ruoli da protagonista assoluto, cosa che non ero più in grado di offrirgli. Si illuse di poterli trovare altrove, ma salvo l’Ermanno Olmi di Ticket, il cinema italiano non gli ha offerto niente.
Ingrati?
Io chiamai persino Fellini, pregandolo di coinvolgere Carlo, ma Federico non acconsentì: “È troppo tuo”, e forse aveva ragione. Non sono riuscito a trasmettere la stima per Delle Piane, per la sua intrinseca bellezza ai miei colleghi. Cinque o sei mesi fa all’Auditorium di Roma – era già ammalato, in carrozzina – gli hanno fatto la festa per i settant’anni di carriera: c’era un sacco di gente, ma del cinema nessuno, a parte io e Antonio. Ho un dubbio…
Che dubbio, Avati?
L’amarezza dei suoi ultimi tempi… Non so se Carlo si sia voluto ammalare, ma temo di sì.