il Fatto Quotidiano, 26 agosto 2019
Conte II e Andreotti III: le analogie con il 1976
Dalla destra alla sinistra, come capo del governo, nominato anche per garantire gli equilibri internazionali. Sembra il profilo di Giuseppe Conte, premier uscente, e lo è certamente. Ma non riguarda solo lui. La storia repubblicana offre varie analogie, non paragoni superficiali, tra i politici che si sono seduti sulla poltrona dipresidente del Consiglio a Palazzo Chigi guidando nel tempo coalizioni diversissime tra di loro. E il profilo di cui sopra appartiene allora anche ad alcuni leader democristiani del passato. Primo fra tutti Giulio Andreotti.
Si chiama logica del proporzionale in una democrazia parlamentare. Storditi dal ventennio breve del bipolarismo ci si è dimenticati che l’Italia del 4 marzo 2018 ha restituito al Paese uno schema modello Prima Repubblica. E in un quadro del genere le coalizioni si formano ufficialmente sulla base delle consultazioni del capo dello Stato. Il nome del premier viene indicato dal partito di maggioranza relativa, in questo caso il Movimento 5 Stelle. Ecco perché la decisione pentastellata sul nome di Conte per un esecutivo con il Pd rimanda soprattutto alle analogie con il 1976, l’anno dei due vincitori, Dc e Pci, e della solidarietà nazionale alias compromesso storico.
Proprio ieri una testimonianza autorevole è giunta da Pierluigi Castagnetti, ex parlamentare del Pd legato da una lunga amicizia al capo dello Stato Sergio Mattarella. Castagnetti ha fatto un tweet intitolato “La lezione di Berlinguer”. Scrive: “Nel 1976 Berlinguer (che avrebbe preferito Moro) accettò Andreotti, perché riteneva che sono i programmi e non le persone il terreno e lo strumento della discontinuità”.
Il governo Andreotti III nacque a poco più di un mese dalle elezioni del 20 giugno del 1976. I due protagonisti del compromesso storico erano Aldo Moro per la Dc ed Enrico Berlinguer per il Pci. Il segretario comunista avrebbe voluto Moro a capo del monocolore Dc che in Parlamento avrebbe contato sull’astensione o non sfiducia del Pci. Un evento storico, dopo la traumatica fine dei governi di unità nazionale del Dopoguerra su diktat degli Stati Uniti. Ma fu lo stesso Moro – lo statista dc fu in corsa per la presidenza di Montecitorio dove invece andò Pietro Ingrao – a indicare il nome di Giulio Andreotti.
Per due motivi. Il Divo Giulio era l’unico che in quella fase poteva garantire tutte le feroci correnti della Balena Bianca (altra analogia con la fase odierna) ma soprattutto doveva funzionare come garante per gli americani, visti i suoi rapporti internazionali.
In sintesi, fu questa la genesi che portò Andreotti, uomo della destra dc, conservatore e gestionista, a capo di quel monocolore che andò in crisi due anni, nel tragico marzo del 1978, il mese del rapimento di Moro. Quel governo era l’Andreotti III e veniva dopo l’Andreotti II del giugno 1972, quattro anni prima. L’Andreotti II (non bis, come molti si ostinano a chiamare un nuovo eventuale governo Conte) è passato alla storia come un governo di centro-destra, col trattino, ché la Dc si alleò con il Pli di Malagodi. Non solo: i morotei, contrari all’accordo, si rifiutarono di indicare ministri per l’esecutivo.
La storia repubblicana presenta altri esponenti di rilievo della Dc chiamati a pilotare fasi politiche di segno diverso. In un anno, dal 1947 al 1948, Alcide De Gasperi passò dai governi con il Pci di Palmiro Togliatti (che era ministro della Giustizia) all’anticomunismo viscerale delle elezioni del 18 aprile. Fino a metà del 1947, ci fu un De Gasperi III sostenuto da Dc, Pci e Psi. Da maggio di quell’anno subentrò il De Gasperi IV, un quadripartito formato da Dc, Pli, Psli e Pri. Si aprì il cosiddetto centrismo, in cui si forgiarono i due campioni delle aperture a sinistra: AmintoreFanfani, che riportò il Psi al governo, e lo stesso Moro.