Il Sole 24 Ore, 25 agosto 2019
Opicinus de Canistri, il cartografo che disegnava le mappe del suo inconscio
WIMBLEDONX
Tra le novità, più o meno positive, che Internet ha introdotto nelle nostre vite c’è che possiamo vedere, sullo schermo dei nostri computer, i libri, i manoscritti, le immagini più diverse, custoditi nelle biblioteche e nei musei di tutto il mondo. In un certo senso una specie di biblioteca universale è oggi a nostra disposizione. Un grande vantaggio per gli studiosi e anche per i comuni lettori. Eppure qualcosa è andato perduto, o almeno è diventato più difficile, meno essenziale, e cioè la peregrinazione per le biblioteche, alla ricerca di quel testo, di quel manoscritto che assolutamente ci serviva. Un viaggio, un incontro personale con il libro o il codice antico che sapeva regalare momenti magici. Non dimenticherò mai ad esempio quella mattina del 6 ottobre 1989 quando, nella sala manoscritti della Biblioteca Vaticana, mi portarono il codice Palatino latino 1993: grandi, rozze pergamene sembravano conservare, rievocare dal vivo la pelle degli animali da cui erano state tratte: pareggiate solo da tre lati, conservavano nella parte superiore la forma del collo. Su di esse si dispiegavano davanti ai miei occhi intrichi labirintici di diagrammi, immagini, carte geografiche in cui le terre e i mari diventavano corpi umani e mostruosi. Un caos apparente, una vera sfida per gli occhi (bisognava adottare diverse prospettive, girare intorno alle pergamene per riuscire a districare le varie figure) e insieme una sfida per l’interpretazione ma anche per la carica emotiva che quelle immagini e quelle scritte trasmettevano, intatta, attraverso i secoli.
Ero arrivata lì, a quel codice che Opicinus de Canistris aveva scritto e dipinto nel 300, sulla scorta di studi pubblicati dal Warburg Institute, perché mi occupavo di arte della memoria. C’era, in quell’intrico di immagini e di parole, molto di familiare ma anche molto di irriducibile a quanto avevo già visto e conosciuto. Mi è capitato di pensare, a distanza di tempo, che proprio quelle grandi, rozze pergamene restituivano dal vivo una delle immagini più ricorrenti nella tradizione classica e medievale dell’arte della memoria, quella cioè per cui chi pratica l’arte scrive nella propria mente, vi imprime la mappa della propria anima. E nel Medioevo lo fa ad esempio quando scrive sulla pergamena, che così diventa una immagine privilegiata per descrivere il rapporto fra memoria e oblio. Bernardo di Chiaravalle, ad esempio, nel sermone De conversione, scrive che è molto difficile, quasi impossibile, e anzi rischioso, dimenticare i propri peccati. Essi sono profondamente impressi nella nostra anima: è come se si volesse raschiare via da una pergamena, imbevuta di inchiostro e di colori, le parole e le immagini che vi sono state incise. Si rischia di raschiare via la pelle stessa, insieme a ciò che si vuole cancellare.
Sulle pergamene che oggi sono conservate alla Biblioteca Vaticana Opicinus de Canistris, un prete pavese che era approdato alla corte pontificia di Avignone, disegna appunto una mappa della propria anima, riempie i luoghi del cosmo con i mostri che popolano la sua interiorità, cercando di esorcizzarli. Ce lo mostra Sylvain Piron, in un libro uscito a Bruxelles nel 2015, ora pubblicato da Adelphi in una edizione preziosa, che nella impaginazione e nelle tavole cerca di comunicare il fascino dei manoscritti originali. E a sua volta l’autore, che insegna storia medievale all’École des Hautes Études di Parigi, non si sottrae al tentativo di inoltrarsi nel labirinto, di cercare almeno una via di interpretazione in quel mondo che disorienta e affascina. La sua, scrive, è una ricerca di psicologia storica, è il tentativo «di porsi in ascolto di un dolore per capire il mondo che l’ha prodotto». L’io di Opicinus di Canistris è intensamente presente nelle sue carte: leggiamo fitte annotazioni autobiografiche, vediamo anche una serie di autoritratti. È un io carico di dubbi, di un ossessivo senso del peccato, l’io di un sacerdote che dubita della efficacia della propria ordinazione sacerdotale e dei sacramenti che amministra, di uno scrivano della Penitenzieria pontificia che sogna una Chiesa spirituale mentre vive la realtà della Chiesa avignonese e mantiene la sua fedeltà anche politica al papa, fino a farsi promotore di un ideale radicale di teocrazia. È un io che si autodenigra, tanto che mentre medita sul futuro dell’umanità e del cosmo finisce con identificarsi con l’Anticristo e con il Capricorno, il mostruoso capro libidinoso che ha presieduto alla sua nascita (il 24 dicembre, appunto ante-Cristo).
Nel marzo del 1334 Opicinus vive un’esperienza traumatica: perde sia la memoria che l’uso del braccio destro; come già in passato la tenebra della malattia si popola di visioni. Quando si riprende, lentamente e a fatica, costruisce con tenacia le sue rappresentazioni sulla pergamena, dove lo spazio ordinatamente scandito delle carte nautiche e degli schemi cosmologici si popola di immagini e di parole che creano una serie vertiginosa di corrispondenze e di significati. «Uscito da tre settimane di letargia, – scrive Piron – parzialmente immemore e privato di alcune sue conoscenze, è naturale che avesse difficoltà a recuperare le sue funzioni. I lavori di scrittura e di disegno ai quali si dedicò possono essere intesi come una forma di terapia che lo aiutò a riappropriarsi di se stesso». Questa è infatti la linea di ricerca e di interpretazione che Piron pratica, cercando uno spazio suo tra le diverse letture che la tradizione aveva fornito dell’opera di Opicinus. Riscoperta nel Novecento, grazie alla segnalazione che il prefetto della Biblioteca Vaticana ne fa a Fritz Saxl, allora assistente di Aby Warburg, che sta approntando un catalogo dei manoscritti astrologici, l’opera suscita l’interesse di Jung, che l’accosta ai mandala delle religioni indiane, mentre Ernst Kris vede in Opicinus un esempio degli “artisti psicotici”. Piron non mette da parte l’idea dei disturbi mentali, ma non ne fa la chiave interpretativa, non rinuncia a una lettura storica e culturale. Come dice il titolo del suo libro, che riprende un’espressione di Warburg, la sua idea è che è possibile rintracciare nell’opera di Opicinus la “dialettica del mostro”, e cioè, egli scrive, il «dramma psichico fondamentale della cultura, le cui realizzazioni si manifestano solo dopo aver superato un caos originario, di cui esse lasciano tuttavia affiorare le tracce».
Opicinus esibisce i suoi mostri, dà loro spazio e vita entro gli schemi geometrici, alla ricerca di significati nascosti e profetici che i disegni stessi dovranno produrre e rivelare: sono immagini, egli scrive, che ha disegnato «senza aiuto umano», sono «scritti di testimonianza» fatti in modo che in futuro sia data ai sapienti l’opportunità di riflettervi. Sono immagini che in un certo senso generano da sé altre immagini e altre interpretazioni possibili e, mentre esprimono una tensione spirituale, un desiderio di rigenerazione cosmica, si riempiono di soggetti crudeli e di fantasie sessuali che investono i mari e i continenti, come la «donna-Europa nuda, vestita soltanto di stivali di cuoio.. che porta nel ventre insanguinato, in Lombardia, il feto di una piccola Europa che pare sul punto di nascere per parto cesareo nel golfo di Genova». E vediamo «nel golfo di Biscaglia le narici di un mostro, il suo occhio minaccioso e le fauci aperte che stanno per richiudersi sulla Bretagna, ingurgitando un personaggio di cui si vedono ormai solamente le gambe».
La dialettica del mostro.