Libero, 26 agosto 2019
La stoffa che manca a Zingaretti
Docile come un biscotto di pasta frolla, Nicola Zingaretti si sta facendo sbriciolare e rimodellare a misura e uso e consumo di Beppe Grillo e della sua premiata ditta in cerca di un nuovo governo per tirare a campare. La sua conferenza stampa di ieri pomeriggio è stata un saggio di elusività e imbarazzo: ha recitato il programma di Alice nel paese delle meraviglie (dalla conversione green al taglio delle tasse) pur di non affrontare il caso Giuseppe Conte, sul quale il veto posto dai vertici dem sembra più flebile e incongruo. Nell’insieme, il segretario si comporta come se non ci fosse un domani lontano dall’ipotesi del governo giallorosso. Anzi: giallofucsia, come l’ha definito il gesuita padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà cattolica, per imarcare il passaggio sottoculturale della sinistra italiana dalla lotta di classe alla lotta di genere. Ma non era stato il vicepremier Luigi Di Maio, come sostengono le malelingue, a lasciarsi andare alla tragica ammissione di debolezza: se non facciamo un governo con il Partito democratico siamo morti? Sì, ma al dunque sembra essere il Pd a impersonare il ruolo dell’amante occasionale, prescelto per una fuitina biodegradabile e trattato come un cortigiano qualunque. Malgrado il diniego di facciata, le notizie di giornata raccontano di una sopraggiunta crisi d’identità da parte del fratello di Montalbano sul nome di Giuseppe Conte. I grillini si sono impuntati sull’avvocato degli italiani più amato dagli anti italiani (soprattutto in Europa): o lui o il voto anticipato, fermo restando il retropensiero sciagurato e ricattatorio di riaprire il primo forno e convolare a nuove nozze con lo stordito e pentito Matteo Salvini. È un bluff, quello dei pentastellati? Chissà. In ogni caso Zingaretti ci sta scivolando con tutte le scarpe, premiando il dinamismo paraculo di Matteo Renzi, vero regista di tutta l’operazione, e i capricci sinuosi dei pentastellati che ora si permettono di dettare le condizioni (tipo Alessandro Di Battista ministro) e presentano una robusta black list di nomi sgraditi (ne ha scritto l’Huffington Post). Strada sbarrata a Renzi medesimo, a Maria Elena Boschi e a Luca Lotti, che se ne fregano perché vogliono amministrare la situazione restando bene acquattati; ma pure Matteo Orfini e Laura Boldrini figurano fra gli indesiderati, così come tutti i dem anche lontanamente coinvolti con i casi Bibbiano e mafia Capitale. Bontà loro, e buona fortuna. Il segretario del Pd era già arrivato secondo all’appuntamento con il ribaltone fissato da Renzi con un’intervista al Corriere della Sera e poi confermato in conferenza stampa nel giorno della (non)sfiducia a Conte in Senato. Voleva andare al voto anticipato per stilare le sue liste elettorali e finalmente controllare i suoi gruppi in Parlamento, il povero Zingaretti, invece s’è dovuto piegare alla strategia renziana. Però all’inizio aveva posto un veto di quelli invalicabili, a sua volta stentoreo, in un’intervista al Messaggero: mai un Conte bis, serve discontinuità eccetera eccetera. Una posizione di compromesso centrata per intero sulla petizione di principio per cui le presunte nefandezze perpetrate dai gialloverdi e controfirmate da Conte non sarebbero pareggiabili dalla scelta (un autentico suicidio?) di promuovere a Palazzo Chigi, chessò, uno come Roberto Fico (che però si è sfilato). Di qui un intenso lavorio per cercare di frenare il “contiano” Renzi e produrre su appositi tavoli uno straccio di programma comune e credibile agli occhi del sempre più basito presidente della Repubblica. Risultato: una confusione stridente, desolata e cacofonica nella quale Di Maio ha continuato a far trapelare le sue richieste: conferma per l’inquilino di Chigi e per sé stesso, massima libertà di trattativa sul resto. Aggredito su tutti i fronti, circondato da suadenti consiglieri interessati come Dario Franceschini e Graziano Delrio (i più attivi nel negoziato giallofucsia), Zingaretti ha dovuto trangugiare una tonnellata di dubbi politici e riserve personali, constatando infine di non essere altro che il prestanome di un partito ancora retto da altri e da altro: i renziani, la volontà di rimanere ben piazzati sugli scranni parlamentari della presente legislatura e la voluttà di tornare al governo senza passare per le urne funeste. Un capolavoro reso forse possibile dall’ultimo testacoda in vista, ovvero la disponibilità a ragionare sulla tentazione grillina di mettere ai voti su Rousseau la premiership irrinunciabile di Conte e quindi imporla ai democratici d’ogni ordine e grado. Sarebbe il trionfo della pseudo democrazia diretta internettiana (tanto odiata a parole dalla sinistra) combinata con le infinite possibilità combinatorie offerte dalla partitocrazia asserragliata nei Palazzi romani del potere. Rousseau a Bisanzio. Che fare, a questo punto? Troppo numerose e troppo intense le pressioni alle quali è sottoposto il burroso e sudatissimo Zingaretti, il quale a parole costruisce muri di cemento armato ma nei fatti, tra una telefonata e l’altra a Di Maio, si ritrova sempre più solo in una casa di marzapane addentata dal goloso Renzi e dai famelici grillini. Se le cose andranno male diranno che è colpa sua; in caso di successo, il risorto Giglio magico pretenderà onori e medaglie. Male che vada saranno quattro anni bellissimi.