Libero, 26 agosto 2019
L’uomo morto dopo 31 anni di coma e i genitori che per tutto questo tempo si sono isolati per occuparsi di lui
La Volkswagen Golf di cinque ragazzi bresciani, nella notte tra il 19 e il 20 marzo del 1988, esce di strada lungo la A22 del Brennero (a Nogarole Rocca) e tre di loro si salvano, uno muore, mentre l’ultimo, un 23enne, entra in coma senza mai più uscirne: il che, per molti, equivale alla morte, ma la storia che stiamo raccontando comincia proprio da qui, dalla facoltà di giudicare la vita e la morte altrui. La vita e la morte, per cominciare, di Ignazio Okamoto, il ragazzo ormai 54enne che venerdì scorso è morto clinicamente dopo 31 anni di coma irreversibile (un sonno senza sogni) e poi le vite dei due genitori, la madre Marina (bresciana) e il padre Hector (messicano di nascita, giapponese di origini) che per 31 anni si sono presi completamente cura del loro figlio nella loro casa a Collebeato, nel bresciano, in bassa Val Trompia. La madre non lavorava. Il padre lasciò il lavoro. Avevano e hanno anche un altro figlio, di 16 mesi più giovane di Ignazio. Ma rimasero con in casa un figlio in stato vegetativo e si isolarono progressivamente dal mondo: parole loro al Giornale di Brescia, che ha raccontato la vicenda, «Per 31 anni ci siamo isolati». Ignazio si chiamava così perché il nonno, un giapponese trasferitosi in Messico dove si era convertito al cattolicesimo, aveva preso il nome di Ignacio. Suo figlio a vent’anni era venuto in Italia, a Brescia, dove aveva conosciuto Marina, e poi avevano trasmesso al figlio il nome del nonno. CITO Il ragazzo, da tutti chiamato «Cito», aveva studiato ragioneria e fatto il servizio militare: all’epoca dell’incidente l’aveva appena finito. Diceva di voler avviare un’attività di vendita di fotocopiatrici e in generale si diceva interessato alla tecnologia. Poi l’incidente. Ai genitori lo dicono subito, senza sfumature: vostro figlio non uscirà mai dal coma, è impossibile. E qui cominciano le domande, quelle dei genitori ma anche le nostre, che non siamo certo i genitori: ma forse neppure loro sono i perfetti proprietari di una «vita» altrui, benché fosse quella del primogenito. I due comunque non ci ragionarono più di tanto, e dopo un paio d’anni in un centro apposito lo portarono a casa. In zona non mancano strutture che avrebbero potuto accoglierlo, ma vogliono proprio che il ragazzo stia a casa in famiglia (in coma) perché «era quello che andava fatto, e che mi sentivo di fare». Da principio, col militare obbligatorio e quindi l’obiezione di coscienza, la Caritas gli mandava a casa dei ragazzi che davano una mano a cambiarlo e a lavarlo. Anche il parroco aiutava in qualche modo. Ma non c’era molto altro. Nei prossimi giorni il padre avrebbe firmato un contratto d’assunzione per un’assistente: «Ho 77 anni, anche mia moglie non è più giovane, e da tempo pensavamo a chi si sarebbe preso cura di Cito quando non saremmo stati più in grado di farlo». IRRICONOSCIBILE Anche qui, una realtà sfaccettata. In una ci sono due genitori amorevoli che si preoccupano che il loro figlio si accudito oltre le loro esistenze. Dall’altra c’è la non-vita di un ragazzo praticamente morto che incolpevolmente ha già annullato altre due vite, quelle dei genitori, i quali intanto si preoccupavano che la non-vita del loro figlio potesse gravare su altri ancora. Poi c’è lo stesso ragazzo in coma irreversibile, ormai 54enne, irriconoscibile, a cui nessuno ha mai potuto chiedere se avrebbe desiderato quel destino: il suo e quello altrui. Forse, tra le realtà sfaccettate, c’è anche uno Stato e una struttura sociale decisamente poco invasivi (soprattutto da quelle parti) che per 31 anni mai si sono preoccupati di porre i genitori di fronte a una scelta serena, quella che dei genitori, forse, da soli, non sempre sono emotivamente e razionalmente in grado di fare: «Abbiamo sempre avuto la speranza che qualcosa cambiasse, che ci fossero dei miglioramenti», ha raccontato la madre, anche se i medici non avevano mai neppure tentato di illuderla. Hanno chiesto al padre, Hector, che cosa pensasse del caso di Eluana Englaro e di suo padre Giuseppe. La risposta è stata sconcertante: «Non ho mai pensato di giudicare la scelta di un altro padre, di altri genitori: ho rispetto per tutti, so che noi abbiamo sempre pensato che fosse questa la cosa giusta. Ma giusta per noi». Hector, cioè, non pensa che il caso strano possa essere rappresentato da lui medesimo: il caso particolare è stato quello di Giuseppe Englaro, un uomo che ha combattuto la sua battaglia (per tutti) dentro le istituzioni, sino a vincerla. Hector non giudica «le scelte di altri genitori», a quanto pare diretti proprietari dei loro figli e delle loro vite. A quel pover uomo di Hector hanno pure chiesto se abbia mai pensato che sarebbe stato meglio che la vita di Cito finisse. E Lui: «Non l’ho mai sperato, mai. Sapevo che era il corso naturale delle cose, che poteva accadere». Ma il coma e la totale mancanza di una coscienza, in quelle condizioni, erano il corso artificiale delle cose. Da 31 anni. Una non-vita, vissuta da chi non l’aveva chiesto, che ne ha mortificate altre due trasformando una speranza ingiustificata in superstizione. Sinché il cuore di Ignazio, unico organo dinamico, si è fermato all’ora di pranzo di venerdì.