La Stampa, 26 agosto 2019
Tutte le leggi violate con i proti chiusi
Ufficio del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Trapani, 23 maggio: «Il diritto a non essere espulsi, estradati o respinti verso Paesi a rischio tortura sono assoluti ed inderogabili». Tribunale amministrativo del Lazio, 14 agosto: «Si ravvisa una violazione delle norme di diritto internazionale del mare in materia di soccorso». Procura della Repubblica di Agrigento, 20 agosto: «L’obbligo di salvataggio delle vite in mare costituisce un dovere degli Stati e prevale sulle norme e gli accordi bilaterali».
Sulle spalle dell’Europa
Cosa spinge tre uffici giudiziari in tre mesi a mettere in discussione le scelte dell’autorità politica? «Porti chiusi», dice Matteo Salvini. Ma chiusi a cosa? In nome di quali regole? Perché il ministro degli Interni è stato indagato per sequestro di persona e invece Carola Rackete – l’ormai famosa comandante tedesca della Sea Watch – è stata rilasciata in poche ore dopo aver attraccato illegalmente a Lampedusa? Il più incredibile fallimento politico della storia continentale viene da lontano e cade sulle spalle dell’intera Unione europea: Mare Nostrum, Frontex, Frontex plus, Triton, Themis, confusi tentativi di risposta all’emergenza migratoria scivolati lentamente nell’irrilevanza delle istituzioni comuni. A differenza di quanto accaduto nei Balcani, l’Unione ha lasciato l’Italia sola a gestire la rotta libica e tunisina. Le soluzioni adottate negli ultimi due anni hanno sì fatto crollare il numero degli sbarchi, ma hanno provocato un cortocircuito fra le regole nazionali invocate nei singoli casi e il quadro giuridico internazionale.
Il memorandum con la Libia
La Libia è unico Paese al mondo che ha importanti responsabilità di coordinamento di salvataggio di migranti senza essere mai stato presa in considerazione come porto sicuro. Eppure è ciò che impone la legge del mare. Non solo: la Libia non è riconosciuta come porto sicuro nemmeno dall’Onu la quale – paradosso nel paradosso – è responsabile dell’agenzia alla quale è stata comunicata la zona di pattugliamento libico. L’innesco del cortocircuito è il memorandum con cui Italia ed Europa si mettono nelle mani di Tripoli per risolvere il problema migratorio. Nasce dall’iniziativa dell’allora ministro degli Interni Marco Minniti, ed è firmato il 2 febbraio 2017 da Paolo Gentiloni e dal traballante capo del governo riconosciuto dall’Unione, Fayez Serraj. Il quale – per inciso – non ha alcun controllo su un’enorme parte della Libia e sulla Cirenaica. Quello è il momento nel quale l’Italia inizia a finanziare il pattugliamento della guardia costiera locale e nel Mediterraneo si moltiplicano le missioni delle Organizzazioni non governative.
Nel provvedimento di maggio il Tribunale di Trapani sostiene che quell’intesa – non esplicitamente ratificata dal Parlamento, ma solo attraverso la legge di conversione del pacchetto di misure che ne seguì – non avrebbe nemmeno valore giuridico vincolante. Contro l’accordo italo-libico l’Università di Science Po ha preparato un lungo rapporto consegnato alla Corte penale internazionale. Fra le tante, una denuncia spiega da sola il fallimento del sistema: migranti recuperati in mare, torturati, e infine scortati di nuovo in acqua dalle stesse milizie libiche per raggiungere l’Europa dopo aver pagato un riscatto. La richiesta – anche a carico del governo che lo introdusse – è di un’indagine per crimini contro l’umanità.
Il caso Von Thalassa
C’è un caso che più di ogni altro racconta bene il cortocircuito fra legalità e illegalità. Pur essendo firmataria della convenzione Sar di Amburgo del 1979 ("search and rescue”, “cerca e salva"), la Libia non si era mai occupata di pattugliare le sue coste. A valle dell’accordo con l’Italia, a giugno del 2018 Tripoli comunica all’Imo (l’autorità marittima dell’Onu) di aver individuato un’ampia zona di mare in cui si farà carico del soccorso dei migranti. La zona Sar non coincide con le acque territoriali, i cui confini sono sempre incerti. Ma se un’organizzazione non governativa recupera persone in acque nella zona Sar libica, sarebbe tenuta a riconsegnarle alle autorità di Tripoli.
È quel che avrebbe dovuto fare nell’estate 2018 il rimorchiatore italiano Vos Thalassa, oggetto dell’indagine della procura di Trapani. L’otto luglio il comandante comunica al centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo di aver recuperato al largo delle coste libiche più di sessanta migranti. In un primo tempo le autorità italiane impongono al rimorchiatore di far rotta verso Lampedusa. Poche ore dopo il comandante fa sapere di essere stato contattato dalla Guardia costiera libica che lo invita a consegnare i migranti perché salvati in zona Sar di loro competenza. Quando i naufraghi si accorgono del cambio di rotta, due di loro organizzano una rivolta e minacciano di morte l’equipaggio.
A quel punto il comandante chiede l’assistenza della guardia costiera italiana, che interviene e accompagna il gruppo a Lampedusa. La sentenza che assolve i due migranti eccepisce il «diritto assoluto» alla «legittima difesa», al «non respingimento» e al rimpatrio in un «porto sicuro», dunque non in Libia. Il fondamento della decisione è in una lunga lista di norme, interne e internazionali: l’articolo due della Costituzione italiana, le dichiarazioni europea ed universale dei diritti dell’uomo, la convenzione di Montego Bay sul diritto del mare (1982), la convenzione di Londra per la salvaguardia della vita in mare (1974), la già citata convenzione Sar di Amburgo del 1979. Nella sentenza si dice di più: la stessa convenzione di Amburgo non consente il rimpatrio in Libia dei migranti, ma al contrario impone di accompagnarli in luogo sicuro, ed è uno dei fondamenti del principio di non respingimento. Un principio sancito da due istituzioni (quella dei diritti dell’uomo di Strasburgo e la corte di giustizia dell’Unione) e sul quale invece si regge l’intesa con la Libia.
Il venti agosto la procura di Agrigento ha disposto il sequestro della nave Open Arms e l’evacuazione del suo carico di immigrati. Ecco cosa scrive il procuratore Luigi Patronaggio a proposito degli obblighi di salvataggio delle vite in mare: «Le convenzioni internazionali in materia costituiscono un limite alla potestà legislativa e non possono costituire oggetto di deroga da parte dell’autorità politica». Spetta ai giudici disporre la disapplicazione di leggi votate dal Parlamento? La domanda se la pongono in molti, ma non risolve la contraddizione.
Le obiezioni del governo
Al netto della propaganda da comizio, le circolari a firma Matteo Salvini forniscono qualche appiglio giuridico al tentativo (mai riuscito) di chiudere i porti, legittimare i controlli libici e la consegna dei migranti alla Guardia costiera di Tripoli. Il documento pubblicato il 18 marzo dal ministro degli Interni ammette che l’Italia «ha l’obbligo di garantire la vita umana in mare e coordinare le azioni di soccorso anche fuori della propria regione di competenza», ma «soltanto fino a quando il centro competente non abbia assunto il coordinamento» del salvataggio.
Non solo: Salvini lamenta l’intervento delle navi delle Ong «in zone di responsabilità non italiane disattendendo le direttive delle autorità Sar». I porti «libici, tunisini e maltesi possono offrire adeguata assistenza logistica e sanitaria, essendo peraltro più vicini in termini di miglia marine». Qui il ministero degli Interni non si preoccupa di stabilire se si tratti o meno di porti sicuri. O se – come nel caso di Malta – il Paese ospitante sia attrezzato per accogliere barche cariche di decine di migranti. La circolare omette anche di citare la Spagna fra i possibili approdi, perché troppo lontana per chi spesso sale a bordo in condizioni precarie. Salvini rivendica in ogni caso pieni «ed esclusivi» poteri sul mare territoriale italiano.
Passaggio in acque territoriali
Una seconda circolare del 4 aprile dopo il caso della nave Alan Kurdi e una terza il 15 maggio dedicata a Sea Watch 3 citano l’articolo 19 della convenzione di Montego Bay e il diritto a negare il passaggio di una nave nelle acque territoriali se ritenuto «non inoffensivo”. La norma parla esplicitamente di «carico o scarico di persone in violazione delle leggi e dei regolamenti in materia sanitaria e di immigrazione vigenti nello Stato costiero».
E però si tratta di un’eccezione alla regola generale che regola il diritto al passaggio: è considerato inoffensivo finché «non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero». Si può eccepire un simile argomento contro un battello di immigrati che in molti casi hanno diritto di chiedere asilo o lo status di rifugiato? È questo il cappio giuridico a cui è appesa l’Italia: da un lato il potere riconosciuto di negare l’approdo in nome delle leggi nazionali contro immigrazione clandestina e traffico di esseri umani, dall’altro il dovere di assicurare i diritti dei migranti.
Il decreto sicurezza
L’unica soluzione per evitare l’applicazione all’Italia del regolamento di Dublino – quello che prevede di chiedere asilo nel primo luogo di approdo – sarebbe quella di considerare la bandiera delle Ong alla stregua di un’ambasciata. Ma non c’è regola che possa modificare la geografia: l’Italia resta il primo porto sicuro per chi è in fuga dal continente africano. Le circolari lamentano interventi delle Organizzazioni non governative «finalizzati al trasferimento sul territorio di migranti irregolari, facendo ricorso strumentale alle convenzioni». In nome di questo il decreto sicurezza bis ha introdotto multe fino a un milione di euro per le Ong e l’arresto dei capitani delle loro navi. Ma si può contestare tali violazioni se firmatari di accordi internazionali che prevedono l’obbligo di salvare vite in mare? Le statistiche dicono che gli interventi delle Ong restano marginali rispetto ai grandi numeri.
L’Istituto per gli studi internazionali (Ispi) stima che sui 3.073 migranti arrivati in Italia da gennaio a luglio, solo 248 sono stati accompagnati dalle Ong. Gli altri 2.825 sono “sbarchi fantasma”. Migranti riusciti a sfuggire alla morte in mare, al tritacarne mediatico e che meriterebbero miglior sorte con una soluzione europea al problema.