la Repubblica, 26 agosto 2019
La storia del capolavoro di Leonardo che sta in America
Questa è la storia di un capolavoro di Leonardo che poteva trovare casa in Italia e che invece è finito negli Stati Uniti. Una vicenda finora segreta che solo adesso, nell’anno delle celebrazioni planetarie per i 500 anni dalla morte del grande pittore, può essere finalmente rivelata. Eccola.
«Quando hai un po’ di tempo, passa da me, che ho una cosa speciale da mostrarti». A ricevere questa telefonata, un giorno di fine anni ’50, fu un giovane medico che aveva tra i suoi assistiti uno dei più importanti antiquari italiani dell’epoca. Lo scenario è quello di Bergamo. Erano diventati amici. Il mercante – energico, impetuoso, geniale – aveva saputo apprezzare la natura schiva e sensibile del dottore, iniziandolo ai segreti del collezionismo. Poche cose all’inizio, poi di più e sempre più belle, in un crescendo che prendeva il ritmo della relazione profonda che si era instaurata tra i due.
Era l’Italia del boom economico, un paese che aveva riassaporato il gusto del lavoro e della ricchezza, e ovunque si costituivano nuove raccolte private. Fiorivano i negozi e le mostre d’antiquariato, come quella di Palazzo Strozzi a Firenze, nei cui corridoi s’incrociavano i passi dell’alta borghesia imprenditoriale alla ricerca di arredi e opere d’arte eccellenti che ne esprimesse lo status socioeconomico e culturale.
Commercianti scaltri e raffinati avevano saputo costruirsi fortune notevoli, rastrellando l’Italia e l’Europa per recuperare opere soprattutto del Rinascimento, ma non solo. Così, ad esempio, il conte Alessandro Contini Bonaccossi – seguendo l’intuito suo, della moglie Vittoria e di Roberto Longhi – era riuscito a vendere migliaia di pezzi al magnate americano Samuel Kress (oggi divisi tra la National Gallery of Art di Washington e varie istituzioni statunitensi). L’antiquario lombardo, per quanto più in ombra, era all’altezza di tali figure e – pur provenendo dal campo del mercato librario – stava aprendo una carriera fortunatissima di scopritore di dipinti antichi, ma non solo: il suo nome era Bruno Lorenzelli.
Quando il medico si trovò di fronte a quella «cosa speciale» trasalì. Si trattava di un ritratto di donna a mezzo busto, di straordinaria qualità, di una bellezza quasi ipnotica. Possiamo immaginarlo prendere delicatamente in mano la tavoletta (all’epoca un po’ più grande degli attuali 38 x 37 cm, per via di un allungamento in basso, che poi venne rimosso), osservarla da vicino, voltarla per analizzare il retro (pure dipinto, con due rami intrecciati e un motto), rimetterla sul cavalletto e restare in silenzio, sotto lo sguardo dell’amico che ne scrutava le reazioni. «È stupendo Ma cos’è?». «Cos’è di preciso nessuno ancora lo ha stabilito con certezza», rispose il mercante. «Alcuni hanno fatto il nome di Leonardo (la maggior parte, a dire il vero), altri del suo maestro Verrocchio o della sua scuola, qualcuno ha pensato a Lorenzo di Credi...». «Ma da dove arriva?», chiese il medico. «Dai principi di Liechtenstein. È in temporanea importazione. Se ti interessa...». «Quanto chiedono?». «55 milioni di lire».
Il dottore tacque e riguardò l’opera. Più la osservava e più rimaneva irretito dall’esplosiva potenza espressiva della donna, dalla vertiginosa perfezione tecnica, dall’equilibrio sommo raggiunto dal pittore, chiunque egli fosse. «Pensaci», continuò l’antiquario, «è un pezzo eccezionale: prima o poi il nome più importante sarà confermato».
Il medico tornò a casa e ne parlò con l’amatissima moglie. La cifra era molto alta (55 milioni dell’epoca corrispondono più o meno a un milione e mezzo di euro odierni) e in più non vi era la certezza dell’attribuzione. Ciò che si agita nell’animo in questi casi lo sa solo chi è stato contagiato dal virus del collezionismo: euforia, timori, vertigini, profumi d’affare, tentativi di trovare una soluzione a ogni costo. Per far sua la tavola il dottore, che non aveva abbastanza liquidi, avrebbe dovuto vendere le azioni da poco tempo lasciategli dal padre, un gesto non semplice per più ragioni. Passò varie notti a pensare alla possibilità che aveva di fronte, rimuginando tra una visita e l’altra ai suoi pazienti; ne riparlò con la moglie, che però lo lasciò solo nella decisione.
Quando tornò dall’amico a dire che non se la sentiva, l’opera era sempre lì. Gli lanciò un ultimo sguardo, venendo ricambiato – e trafitto – dall’algida ed enigmatica giovane fiorentina ritratta tra i ginepri. «Capisco», disse l’antiquario. Non la rivide più. A quel punto il quadro fu proposto a un altro importantissimo collezionista bergamasco, che pure non ritenne di rischiare. Così la tavola se ne tornò a casa, dai principi di Liechtenstein, che però si trovavano nella condizione di dover alienare qualche pezzo della loro straordinaria collezione. La scelta era caduta, chissà perché, proprio su quella tavola. Dopo pochi anni, a seguito di trattative segrete e complicatissime svoltesi tra il 1965 e il 1967, fu venduta alla National Gallery di Washington, dove venne restaurata e definitivamente riconosciuta per quel che era: ossia un autentico, strepitoso, capitale Leonardo.
La vicenda di tale acquisizione è narrata dal direttore della National Gallery di allora, John Walker, nella sua biografia ( Self-Portrait with Donors: Confessions of an Art Collector,
Boston, 1974), ma ora altri aneddoti sono resi noti nel volume di ricordi di Mario Modestini messo assieme, con amore e precisione, dalla vedova Dianne, celebre esperta di restauro (Dianne Dwyer Modestini, Masterpieces, ed. it., Capolavori, Cadmo editore). Tuttavia l’episodio del passaggio bergamasco finora non era mai stato rivelato. Era un segreto custodito gelosamente dagli eredi del grande antiquario (che a questo punto mi hanno dato il permesso di divulgarlo) e dal potenziale acquirente (che me lo raccontò più volte, sempre con le stesse parole, come se quell’esperienza si fosse trasformata per lui in uno shock emotivo ed intellettuale indelebile...).
Come s’è ben capito, il quadro era il celeberrimo Ritratto di Ginevra de’ Benci di Leonardo. Se il medico lo avesse comprato, il dipinto sarebbe rimasto in Italia: in sessant’anni sarebbe stato visto da poche decine di persone, invece che dalle centinaia di milioni che dai milioni di visitatori che da allora hanno affollato il museo americano. In seguito egli fu meno prudente negli acquisti e accolse nella sua casa altre opere di grande valore. Perché, anche se può sembrare quasi incredibile, esistono in Italia e nel mondo collezioni con altri paragonabili capolavori assoluti, che segretamente deliziano gli sguardi dei loro più o meno misteriosi proprietari.