la Repubblica, 26 agosto 2019
Hong Kong la Cina passa ai metodi pesanti
Un boato, come una bomba carta. L’ordine in un altoparlante: “Fermatevi”. Poi il grido di battaglia di uno squadrone alla carica, che rimbomba nello stadio per diversi secondi. Non si vede nulla, gli accessi agli spalti sono chiusi, ma bastano i rumori e le divise mimetiche appese in un angolo per capire che succede lì dentro. Anche di domenica mattina al Bay Sports Center, l’enorme complesso sportivo astronave di Shenzhen, le forze paramilitari cinesi si esercitano a sedare sommosse. La sommossa: quella oltre la baia e le colline, appena una ventina di chilometri a Sud, Hong Kong. L’audio da guerriglia urbana pare non disturbare le persone che circolano nel centro, gioiello costruito per le Universiadi del 2011. Famiglie venute a portare i figli a scherma o nuoto passeggiano sotto le tettoie, qualche podista sfida la pioggia battente, gli operai montano strutture e scenografie per gli imminenti Mondiali di basket. «Sono esercitazioni», dice uno con caschetto, l’unico che parla, «ogni giorno è così». Cerchiamo di sbirciare dentro, ma arriva un ragazzo con la maglietta dei Linkin Park e invita a sloggiare: «Non c’è nulla da vedere».
E invece dal livello zero, quello della strada e del campo, camminando a piedi attorno al recinto dello stadio, da vedere ce n’è. Le prove generali della soluzione di Pechino al problema dei ragazzini mascherati: far uscire uomini e mezzi, far loro imboccare il ponte che attraversa la baia, proprio qui davanti, e farli piombare su Hong Kong. Da un cancello socchiuso osserviamo dei blindati passare sulla pista di atletica. Esce in corteo una decina di veicoli, per lo più camionette e uniformi blu della polizia. Probabile fossero lì per recitare la parte dei “rivoltosi”, per allenare i paramilitari che da due settimane Pechino ha acquartierato qui, a cui sarebbe affidata l’operazione. Ne vediamo gruppetti parlottare, in tenuta verde oliva: si chiama Polizia armata del Popolo, antiterrorismo e ordine pubblico. Ed eccolo il loro accampamento, sul lato Nord dello stadio. Hanno tirato delle tende per impedire di curiosare dalla strada, ma basta salire sul grande cavalcavia pedonale per farsi un’idea. Saranno almeno un centinaio di mezzi, alcuni scoperti, le classiche camionette per il trasporto truppe, altri coperti con teli mimetici, sembrano blindati. Si vedono dei cannoni ad acqua, come quelli che ieri la polizia di Hong Kong ha impiegato per la prima volta, in una domenica di scontri violentissimi. Sorprende che tutto l’armamentario sia lasciato così, in bella vista, con pochissima sicurezza. I Mondiali di basket iniziano sabato, nel palazzetto qui accanto sarà Francia contro Germania. I militari se ne andranno prima? A meno che non sia questo lo scopo, che tutti sentano e vedano.
Davvero il Partito comunista è pronto a un’altra Tiananmen? Molti dicono di no, Xi Jinping sa che costerebbe troppo, a Hong Kong ma anche a Pechino. Eppure anche l’altro ieri, in un seminario tenuto a Shenzhen, un ex funzionario ha ribadito che l’intervento sarebbe legittimo. Il primo ottobre la Repubblica popolare celebra i suoi 70 anni, e non vuole farsi rovinare la festa. «Con questa leadership tutto è possibile», dice Chen, 26enne di Canton, con franchezza sorprendente. È reduce da un colloquio di lavoro, la camicia bianca un po’ gualcita, e ora passeggia in un centro commerciale di Futian, il centralissimo e scintillante distretto dei grattacieli. In questa metropoli, doppio e alter ego di Hong Kong, il Partito non mostra solo la forza bruta delle armi. Pechino ha un’altra strategia, più lunga e sottile, per normalizzare e rendere “cinese” l’ex colonia britannica, una strategia economica, e Shenzhen ne è lo strumento. In quarant’anni da villaggio di pescatori è diventata il simbolo della nuova Cina, capitale dell’innovazione, casa di Huawei e Tencent. Il mega ponte appena inaugurato tra Macao e Hong Kong ha chiuso idealmente il cerchio della Bay Area, versione mandarina della Silicon Valley. E nei piani delle autorità Shenzhen ne sarà cuore e punta di diamante, una città laboratorio, mentre Hong Kong, limitata dall’assenza di spazio, “solo” il centro finanziario. Chen riporta la versione ufficiale sui suoi coetanei in trincea data dai media di regime: «Dicono che protestano perché l’economia va male». È vero solo in minima parte, e lo sa: «Io credo che facciano il bene di Hong Kong».
Ma Chen è un’eccezione, gran parte dei cinesi del continente è in sintonia con i messaggi della propaganda. Sul Pil di Shenzhen che ormai ha superato quello di Hong Kong e cresce al triplo della velocità. Sulla protesta di “terroristi” fomentata da potenze straniere. Molti “hongkongers” considerano i cinesi “locuste”, che invadono la loro città per fare shopping, comprare case, studiare o lavorare. Ma i cinesi ora provano un senso di orgoglio e rivalsa: «Sono solo dei teenager violenti, dei rivoltosi che vogliono danneggiare l’ordine della società», dice nella sala d’aspetto della stazione alta velocità Zhang, 28 anni, seduto a fianco alla moglie. Lui è di Pechino, ma vive a Hong Kong da cinque anni, lavora in finanza e ha un borsone di marca. Dice di «starci bene», ma che quando ripassa il confine e torna a casa non gli manca nulla: «Neanche in Occidente c’è vera libertà, su Facebook i messaggi a favore della Cina vengono rimossi».
Stanno chiamando l’imbarco del treno, la nuova linea superveloce tra Shenzhen e Hong Kong, 14 minuti di viaggio. Inaugurata lo scorso settembre, in teoria doveva avvicinarle, invece ha contributo a infiammare la rivolta. Con l’apertura della tratta infatti la polizia cinese ha installato il suo posto di frontiera alla stazione di arrivo di Kowloon, in pieno territorio di Hong Kong. L’ennesimo segno di come, inesorabilmente, il regime allunghi le mani sulla città. «No, la Cina non manderà le truppe», scuote la testa Zhang. «La situazione non mi pare così seria».