Corriere della Sera, 26 agosto 2019
Il Vaticano e l’Unione monetaria latina
Nel 1867, tre anni prima della «presa» di Roma (20 settembre 1870), vennero stampati, a cura del vescovo di Mondovì Ghilardi (ovviamente con il beneplacito del sopravvissuto governo pontificio), due volumi che raccoglievano gli Atti collettivi dei vescovi italiani, preceduti da quelli di Pio IX, contro «le leggi e i fatti della Rivoluzione risorgimentale». Contemporaneamente la Segreteria di Stato, guidata fin dal 1848 dal cardinale Giacomo Antonelli, continuava l’azione diplomatica per fare accogliere, tra i membri della «Unione monetaria latina», lo Stato pontificio, che era stato già amputato di gran parte del suo territorio, con un debito pubblico che sfiorava i venti milioni e con la sua moneta che cominciava a perdere vistosamente valore.
Anche per questo Pio IX si era proposto, fin dal 1866, di aderire all’Unione monetaria latina, antenata dell’Eurozona, creata da Belgio, Francia, Italia e Svizzera (nel 1869 verrà ammessa la Grecia) e a tale scopo aveva sostituito gli scudi e i baiocchi, cari al Belli, con la «lira vaticana» che prese il nome della moneta del nemico sardo-piemontese, diventata «lira italiana» fin dal 1861. L’Unione monetaria latina, precedente storico non frequentemente evocato di quella del 1999, era stata creata il 23 dicembre 1865. Alla Convenzione da cui era sorta – che rimarrà formalmente in vita fino al 1926 – poteva accedere qualsiasi altro Stato d’Europa che ne accettasse gli obblighi in materia di peso, titolo, diametro e corso delle monete d’oro e d’argento.
Se già agli inizi del dicembre 1865 Antonelli esponeva all’ambasciatore belga le preoccupazioni vivissime del papato per la crisi monetaria dei suoi Stati, nel 1866 non esiterà a candidare lo Stato pontificio all’adesione all’Unione monetaria latina. Adesione che avrebbe consentito di far circolare all’estero la moneta meno pregiata, conservando quelle d’oro e d’argento. Due anni dopo, Antonelli assicurava alla Francia – timorosa che i denari del Papa fossero nel «grado e nel valore» inferiori alla valuta francese – che «si stava procedendo in tempi brevi a perfezionare l’adesione». Nel febbraio del 1870, però, la stampa francese commentava così la circolazione della moneta papale inferiore nel titolo a quelle dell’Unione latina: la Santa Sede continua a pagare i suoi debiti all’estero con tale moneta, tollerata dagli Stati dell’Unione, «il procedimento è comodo, senza dubbio, che sia onesto è superfluo dirlo». E aggiungeva: «Bisognerà forse arrivare davvero a considerare Sua Santità alla stregua di un usuraio che dà alla sua mercanzia un valore di fantasia superiore al valore reale? Sarebbe triste», chiedendosi: «Chi sopporterà tali perdite?».
Nel 1866, peraltro, con l’editto del 18 giugno, Pio IX aveva riformato il sistema monetario romano adottando quello francese del 1803 e istituendo la «lira pontificia», simile nel nome e nel valore a quella degli odiati italiani risorgimentali, scomunicati fin dal 25 marzo 1860, i quali avevano unificato la moneta nel 1862, poi la estesero al Veneto nel 1866 e al Lazio nel 1870. Nel 1893, dopo anni di disordine (si raccontava che un «pizzicarolo» romano stampasse banconote di piccolissimo taglio che circolavano nel quartiere!), venne creata la Banca centrale nazionale, la Banca d’Italia, mentre alcuni buontemponi coniarono monete con Pio IX con la barba e i baffi di re Vittorio Emanuele II o con la pipa e un berretto da popolano.
In quello stesso 1866 l’incaricato d’affari austriaco, Ottenfels, informava il governo della grave crisi della Banca centrale di Pio IX e parlava di «capitale senza territorio», nella quale, a causa della «fortissima riduzione di popolazione subita in seguito agli avvenimenti del 1859-60», in proporzione ai sudditi, la «quantità di moneta circolante era notevolmente superiore a quella degli altri Stati», mentre la bilancia commerciale era «in grave deficit, creando un ostacolo insuperabile per l’ingresso della Santa Sede nell’Unione monetaria». In sostanza, a fronte dell’emissione di quattro o cinque milioni di lire, corrispondenti ai sei franchi per abitante previsti dalla Convenzione latina del 1865, al 1869 circolavano più di 26 milioni di lire vaticane.
Una situazione che Antonelli aveva definito, in un promemoria per l’ambasciatore di Francia del 12 dicembre 1868, «eccezionale sotto qualunque riguardo» e che già nel novembre 1860 aveva registrato fallimenti e il protesto di oltre seicento cambiali. Quando, ai primi del 1870, la Francia iniziò a chiudere le porte ai soldi del Papa, si pensò a un crollo finanziario totale dello Stato pontificio, per cui l’arrivo dei bersaglieri il 20 settembre avrebbe finito per essere una «liberazione» per il governo di Pio IX. In proposito si è addirittura scritto che «paradossalmente la presa di Roma» potè sembrare come l’ultimo espediente del segretario di Stato «per uscire da una situazione ormai incancrenita e riorganizzare, a partire dall’Obolo di San Pietro» (che Papa Francesco definisce un «incontro che moltiplica la capacità di amare»), una condizione economica «più stabile e sicura» per la Santa Sede. Non a caso alcuni autori hanno accusato Antonelli di essere il vero responsabile della caduta di Roma o, quanto meno, di «passività», di «inazione». Una sconfitta che verrà definita «vantaggiosa» per il papato. Comunque, qualche tempo prima la Santa Sede aveva stabilito rapporti con varie banche, in Italia e all’estero, per collocarvi i capitali dell’Obolo, incrementati dal Concilio Vaticano I e dal mito del «Papa prigioniero». Proprio nel 1870 le offerte per «San Pietro» dei cattolici d’Europa avevano toccato il livello minimo (lire 307.632,96) del decennio precedente, mentre l’anno dopo, quello della legge delle Guarentigie, il governo italiano pagherà il «debito pubblico corrispondente alle provincie occupate (…), versando anche gli arretrati dal 1860».
Ai primi del 1867, comunque, Antonelli aveva dato inizio alle trattative per fare aderire lo Stato di Pio IX alla Unione monetaria latina, che «si protrassero per due anni esatti» e che, nel settembre successivo – secondo quanto comunicava a Parigi il nunzio Chigi – erano sembrate avviarsi a conclusione («il Santo Padre stava per mettersi perfettamente in regola con i termini della Convenzione del 1865»), tanto che il governo francese non esitò a redigere un formale «Progetto di dichiarazione per l’accessione degli Stati romani alla Convenzione monetaria del 23 dicembre 1865», con l’avallo degli scomunicati italiani. Meno di tre anni dopo, però, la Banca di Francia, nel timore di essere inondata di denari di titolo inferiore ai pezzi d’oro e d’argento (le «monete divisionarie» che affluivano soprattutto a Marsiglia per l’acquisto di derrate alimentari), «decise di non accettare più oltre in pagamento la moneta pontificia fino a che… non fosse divenuta effettiva e formale» l’adesione di Pio IX alla citata Convenzione. A questo punto (settembre 1867) gli altri Stati membri dell’Unione monetaria, l’Italia in particolare, cominciarono a irrigidirsi, mentre Antonelli, nel dicembre 1868, ammetteva la crisi bancaria dello Stato del Papa, cercando di darne la colpa agli italiani, responsabili di averne invaso le «migliori provincie», amputando il Patrimonio di San Pietro, e di avere imposto il corso forzoso, costringendo il residuo territorio pontificio «a sostenere una permanente passività finanziaria e commerciale».
Nel gennaio 1870 inizierà ad aumentare il numero delle banche che rifiutavano la moneta pontificia e il disagio della popolazione comincerà «a farsi grave». In una nota della Segreteria di Stato del luglio 1870 sulle finanze pontificie si metteva in evidenza, in proposito, che la rivoluzione risorgimentale «non contenta… di avere spogliato la Santa Sede delle più industri ed ubertose province, vuole al danno aggiunto lo scherno e non ha rossore di ascrivere a colpa del governo pontificio quelle medesime sciagure che sono la conseguenza della triste opera sua. Gli è così da vario tempo quando dall’uno, quando dall’altro di quei giornali, ch’essa tiene in Europa a’ suoi cenni, si fanno lacrimevoli descrizioni delle finanze pontificie e se ne trae argomento per porre in discredito il governo della Santa Sede».
Solo qualche mese dopo, il 20 settembre, la breccia di Porta Pia chiuderà definitivamente la strada all’ingresso dell’ormai debellato Stato papale nell’Unione monetaria. Ma, poiché, com’è noto, la moneta non ha odore (e tanto meno di incenso), all’indomani dell’occupazione di Roma, la Sede apostolica non esitò a trattare questioni finanziarie con gli usurpatori, condannati e scomunicati. Si trattava di arrivare alla stipulazione di una Convenzione tra la Banca nazionale del Regno d’Italia e la Banca dello Stato pontificio per definire la rinuncia da parte di quest’ultima (che prenderà il nome di Banca Romana) al monopolio dell’emissione di monete nei territori ex pontifici in cambio di un sostanzioso indennizzo. Ovviamente la Convenzione – che verrà firmata a Roma il 24 ottobre 1870 da Filippo Antonelli, governatore della Banca pontificia e fratello del Segretario di Stato, Giacomo, e dal direttore generale della Banca Nazionale del Regno d’Italia, Bombrini – non fu resa pubblica.
Meno di un mese dopo, il 1° novembre 1870, Pio IX, con l’enciclica Respicientes, dichiarerà «ingiusta, violenta, nulla e invalida» l’occupazione di Roma e denuncerà la condizione di cattività del Pontefice. Il 1° dicembre successivo Vittorio Emanuele II visiterà la capitale, dove il suo governo si trasferirà nel luglio 1871. Due mesi prima, la legge n. 213 del 13 maggio, detta «delle Guarentigie» aveva assegnato al papato una rendita annua di lire 3.225.000, perpetua e inalienabile, che fu respinta da Pio IX e sarà all’origine della Convenzione finanziaria del 1929, allegata ai Patti lateranensi di Mussolini. Ma bisognerà aspettare la fine dell’anno 2000 per vedere il Vaticano entrare a far parte del club monetario dell’Unione Europea e adottare come moneta dello Stato del Papa l’euro. Qualche anno dopo Benedetto XVI continuerà a definire l’Obolo di San Pietro «l’espressione più tipica della partecipazione di tutti i fedeli alle iniziative di bene nei confronti della Chiesa universale». Ma va ricordato che, in un opuscolo del 1900, Paul Lafargue, genero di Karl Marx, descrivendo l’arrivo di Pio IX in paradiso, faceva lamentare San Pietro perché la moneta vaticana da due franchi, datagli come mancia, era falsa e perché il papa «infallibile» si era intascato l’Obolo a lui intitolato, senza dare al «titolare» neppure una monetina. L’apostolo esclamava: «Ladro!».