Il Messaggero, 24 agosto 2019
Nel Mediterraneo di Georges Simenon
WIMBLEDONX
Ci vuole una doppia crudeltà a suggerire la lettura di un libro come Il Mediterraneo in barca di Georges Simenon: la prima è ingolosire il lettore con un racconto di viaggio quando l’estate sta girando la prua verso il Nadir e stanno arrivando i primi temporali che crepano l’adorata mollezza di questa stagione; la seconda è consegnare agli italiani la cartografia del nostro mare come è stato o come lo scrittore lo volle vedere, un utero fertile e amico, una gigantesca stanza dei balocchi; e che, se mai lo è stato, oggi non è più. Adelphi con Mediterraneo in barca (190 pp., 16 euro) mette insieme la raccolta di articoli che lo scrittore scrisse per il settimanale Marianne fra il giugno e il settembre del 1934 – primo anno del governo nazista in Germania, dodicesimo del governo fascista in Italia – e dà il la alla pubblicazione futura di altri reportage di Simenon (1903-1989). Di questa prima selezione, corredata con ventiquattro fotografie scattate dall’autore durante la crociera, protagonista è il Nostro Mare, un bacino che lo scrittore belga di lingua francese riconobbe talmente piccolo e intimo da definirlo un «corso, che assomiglia più di quanto possiate immaginare alla strada principale di una città di provincia. Quando ci si incrocia, ci si saluta». Lo scrittore s’imbarcò insieme con la moglie, una cuoca, sette marinai e la sua macchina fotografica Leica, sull’Araldo, una goletta di trenta metri senza cabine («dobbiamo usare delle amache», spiega nel libro, «che abbiamo sistemato nella stiva o fra le sartie»): salpò da Porquerolles dove si giocava a bocce nella piazza centrale ed era appena arrivata la novità della birra alla spina. le tappe «Tra ventiquattr’ore, o tra quindici giorni, saremo a Genova: dipende dal vento», scrive. Attraccheranno a Napoli, Messina, Malta, Atene, Tunisi, Biserta, Cagliari, a Portoferraio, sull’isola d’Elba. Qui, «ogni cinque minuti un calessino tirato da un mulo si fermava a pochi metri dalla mia barca», racconta l’inventore dell’ispettore Maigret. Non vi è mai salito, i calessini non gli fecero nemmeno fatto voglia: «Per scendere a terra», spiega, «ci sono soltanto quattro buoni motivi, ovvero quattro luoghi da visitare» e in tutti vi toccherà aprire il portafogli: sono la capitaneria di porto, per la documentazione marittima e per «versare un po’ di soldi», la dogana, di nuovo per documenti e soldi, il fermo posta, dove «troverete delle lettere in cui vi si chiedono dei soldi», il bordello, «per ritrovare le vostre abitudini, un ambiente familiare, qualche ragazza che parli la vostra lingua, alcolici d’ogni genere, e potete starne certi, per lasciare anche lì un altro po’ di soldi». Simenon, in nove articoli, cerca di buttar giù, con un linguaggio e soprattutto un approccio stupito e quasi infantile, una definizione di che cosa sia il Mediterraneo e che cosa definisce chi lo guarda. Osserva centinaia di italiani, greci, turchi, siriani che «vanno dappertutto, in questo grande bacino: mai spaesati, perché dappertutto è la stessa cosa». Li guarda più come un uomo in villeggiatura che come un giornalista in cerca di una storia da raccontare. E come un uomo che proviene dal Nord, abituato al rigoglio della Costa Azzurra, dove tutto è in vendita perché tutto ha un prezzo, guarda il Sud, «un miscuglio di fasto e di miseria nera», il paradiso perduto del buon selvaggio, non ancora corrotto dall’antropizzazione, dove nemmeno conoscono la parola “crisi” – erano passati appena cinque anni dal “giovedì nero” della Borsa di New York, quando il 24 ottobre 1929 prese il via la Depressione; ma “crisi”, si legge, è «un’invenzione moderna, come il cambio, il rialzo e il ribasso, lo sciopero e la serrata». E qualora raggiungesse le rive del mare, scrive Simenon, «il vecchio, nell’ospizio, berrebbe acqua sterilizzata da un bicchiere graduato, anziché bere succo d’uva in un bicchiere ingrommato come una pipa. Ci sarebbero igiene, lottizzazione, agenti elettorali, truffe, grandi alberghi vuoti con piscine e gigolò disoccupati». lontani e pazienti Per il momento invece, prosegue, ci sono ancora «persone che vivono senza sapere di avere dei polmoni, che coltivano i loro campi senza conoscere le borse di Londra o di New York, che comprano asini senza preoccuparsi del loro rendimento in cavalli-vapore, che fabbricano vasi come al tempo dei Greci, senza sospettare di star creando capolavori, e che mettono al mondo figli senza chiedere al governo se non sia il caso di farsi sterilizzare». «Tutte queste cose un giorno gliele insegneremo…», commenta, più tormentato che desolato dall’idea che il suo Eldorado possa tracollare. Annota i giorni: «3 giugno, 4 giugno, 5 giugno», e accanto scrive appena «Aspettiamo il vento». Poi, ammette, sdrucciola e gli viene da filosofeggiare: «Ma d’ora in poi», ci fa una promessa, «non mi dimenticherò mai più che il mio mestiere, come diceva Stevenson, è quello di raccontatore di storie». Ecco, Mediterraneo in barca, prima che un piccolo libro importante, è un libro desiderabile: il Mare Nostrum (che è anche parte del titolo originale della raccolta: Mare nostrum ou La Mediterranée en golette) di ottant’anni fa è il mare che oggi vorremmo indietro: una casa mobile dove fermentano gli scambi e dove le identità sono rispettate con noncuranza. Un luogo naturale per la nostra civiltà che oggi si è spezzata in mille luoghi innaturali pronti ad annientarsi l’un l’altro, una culla più di niente e dimora di nessuno.