la Repubblica, 24 agosto 2019
Il Pd non vuole sostituire la Lega
«Io voglio andare fino in fondo, ma il mio no al Conte bis è forte e chiaro. Il Pd non può fare il panchinaro della Lega, quello che entra a partita in corso». Alla fine della cena con Luigi Di Maio Nicola Zingaretti racconta pochi dettagli ai suoi collaboratori ma tiene fermo il punto iniziale e decisivo: quello del premier possibile del governo giallo-rosso. «Noi non facciamo i semplici sostituti». Per dare maggiore forza a questo convincimento Zingaretti mostra un whatsapp di Matteo Renzi dove si legge: «Puoi dire a Di Maio che anche per noi non è potabile la conferma di Conte».
Il messaggio di Renzi vale fino a un certo punto. Ieri è circolata anche la voce, smentita, di un incontro dell’ex premier con Conte e con il maestro di quest’ultimo Guido Alpa a Firenze. Il segretario del Pd sa bene che la truppa renziana è pronta a tutto per mandare avanti la legislatura. Di Maio glielo ha anche detto a quattr’occhi: «I renziani mi hanno fatto sapere che il premier può rimanere al suo posto». Però se la posizione di Renzi ha un fondamento, allora anche Zingaretti riesce e tenere il punto, ad avere un alleato insospettato. A contrastare una determinazione con altrettanta determinazione. «Del resto se pensano di avere i numeri, i grillini la maggioranza la facessero con i renziani», è la posizione di Zingaretti di fronte alle richieste del Movimento 5 stelle. Se non ci sono neanche quei voti il Conte bis dove va?
L’alleato-Renzi non è una variabile indifferente. C’è infatti nel Pd una parte che vuole rimanere in linea con il segretario, ma al momento della stretta finale sarebbe forse pronta a ingoiare anche il Conte bis. La formula è quella del non escludere a priori l’ipotesi. Vale per Dario Franceschini. Vale per Andrea Orlando. E se alla fine loro ci chiedono di tenere Conte noi come rispondiamo? «Sarebbe un’operazione trasformistica», è l’idea di tutti a cominciare da Paolo Gentiloni. Lo pensano anche gli ex ministri della Cultura e della Giustizia. Ma se dovesse diventare il male minore? Questa è la domanda-chiave.
Comunque ieri sera è cominciata la partita vera. L’idea di nuovi contatti e nuovi incontri significa che non siamo davanti a un fallimento. Per questo Zingaretti ha rotto gli indugi e senza dire una parola allo stato maggiore del partito alle 20 è sparito perché aveva un appuntamento “privato": la cena con Luigi Di Maio. Nel suo ufficio al Nazareno, con Orlando e i capigruppo appena usciti dall’incontro con la delegazione dei 5 stelle, il segretario dem ha capito che non bastavano i preliminari a sbloccare l’accordo. Stava crescendo un clima di sospetto sul doppio gioco del capo politico del Movimento. «Capisco che non sia semplice la giravolta. Ma non mi spiego questa resistenza a dire con chiarezza che una maggioranza si può fare solo col Pd. Senza tornare dalla Lega».
Attorno a quel tavolo c’erano il trattativista a oltranza Dario Franceschini, il grande frenatore Paolo Gentiloni, la vice segretaria Paola De Micheli. I dubbi di Zingaretti, la sua prudenza rispetto alla ricostruzione del vertice dei capigruppo sono venuti tutti a galla. È una crisi piena di punti interrogativi. Sergio Mattarella si farà prendere in giro da Lega e 5 stelle accettando il ritorno di fiamma? Sarebbe uno sgarbo enorme ma il presidente della Repubblica ha il dovere di verificare l’esistenza di una maggioranza. Eppoi certi giochetti li ha già vissuti, suo malgrado, 15 mesi fa all’indomani delle elezioni politiche. Quindi la risposta è sì, non c’è altra via. Giuseppe Conte è un nome che il Pd può mandare giù? Il no resta una delle condizioni poste da Zingaretti il quale non vuole un semplice ribaltone ma un governo di svolta. Conte di nuovo a Palazzo Chigi è una replica della vecchia squadra. Ci manca solo che la delegazione dei 5 stelle venga confermata in blocco. Trasformismo allo stato puro.
La posizione di Zingaretti dunque è condivisa dal partito. Ma i passaggi non sono finiti. E nel Pd vogliono anche capire se in realtà Di Maio fosse obbligato a fare il nome di Conte (tanto più dopo il post di Beppe Grillo) sapendo di ricevere un no. Passando così al secondo tempo del match. È solo l’inizio, che sarebbe stata dura si sapeva. È dura da digerire anche la condizione di un’adesione alla riforma sul taglio dei parlamentari. Per tre volte il Pd ha votato contro, ora dovrebbe fare un salto carpiato per dare il via libera. Così è cresciuto, nel giorno della freddezza e della frenata, il bisogno di vedersi di persona. Di fissare i punti veri.