Robinson, 24 agosto 2019
La Biblioteca di Borges
Molto è già stato scritto sulla Biblioteca di Babele, quella versione spaziale e architettonica che Borges elabora da un’idea combinatoria esposta da Kurd Lasswitz con meno fascino letterario nel suo racconto La biblioteca universale. Le monografie e i commenti potrebbero ormai occupare il proprio scaffale vertiginoso in uno dei meandri dell’immensa costruzione borgesiana: il circuito autoreferenziale in cui la Biblioteca legge di se stessa. Recentemente si è scritto, troppo alla leggera, che questo racconto prefigurò la rete delle reti di Internet: questo è profondamente sbagliato, quasi l’opposto della perdita di speranza di un senso che domina le sue pagine. Borges ripete più volte che quasi tutti i volumi della Biblioteca sono inintelligibili: si dice che uno dei libri «constava delle lettere M C V, perversamente ripetute dalla prima all’ultima riga». E ancora: «per una riga ragionevole, per una notizia corretta, vi sono leghe di insensate cacofonie, di farragini verbali e di incoerenze». Internet sarebbe appena una minuscola sottoregione dispersa: la modesta raccolta dei libri decifrabili nei linguaggi umani conosciuti. La spiegazione del perché nella Biblioteca di Babele «il ragionevole (come anche l’umile e semplice coerenza), vi è quasi un’eccezione» ha a che fare con i postulati relativi all’alfabeto e ai volumi: il numero dei simboli ortografici è di venticinque, non ci sono cifre o lettere maiuscole, e la punteggiatura è stata limitata alla virgola e al periodo. Sui volumi si specifica: «ciascun libro è di quattrocentodieci pagine; ciascuna pagina, di quaranta righe; ciascuna riga, di un’ottantina di lettere di colore nero». Ed infine, «la legge fondamentale della Biblioteca», attraverso la quale si insinua il nonsenso: gli scaffali «registrano tutte le possibili combinazioni dei venticinque simboli ortografici». Basti immaginare ora che i primi ventitré simboli ortografici siano le prime ventitré lettere del nostro alfabeto e che gli ultimi siano la virgola e il punto. Se consideriamo come ulteriore simbolo lo spazio bianco e lo aggiungiamo all’alfabeto di base come ultimo simbolo, possiamo rappresentare ogni libro come un’unica lunghissima parola, formata dalla prima riga all’ultima da una sequenza ininterrotta di questi ventisei simboli. Questo ci permette di immaginare i volumi della Biblioteca nell’ordine del dizionario. Il primo libro sarebbe allora un volume di quattrocentodieci pagine con la lettera “a” ripetuta senza spazi dalla prima riga all’ultima. Il secondo libro sarebbe quasi identico, tranne che la lettera finale sarebbe una sola “b”. E così via fino a trovare il primo libro con un unico spazio alla fine. Quante migliaia e migliaia di libri con un puro assiepamento incomprensibile di lettere, quanti scaffali dovremmo scorrere, per trovare il primo libro che cominci con le parole «In un luogo della mancia»? (“mancia” con la minuscola, ricordate che non ci sono lettere maiuscole nell’alfabeto). Quanti altri per poter proseguire queste prime Quique García / EFE parole con un qualche senso? E per arrivare alla fine del primo periodo del Don Chisciotte? Ci sono due problemi scomodi in questa biblioteca che deve ospitare «tutto ciò che è dato di esprimere, in tutte le lingue». Come appaiono i libri scritti in lingue con alfabeti diversi, che comprendono lettere maiuscole, gli accenti dello spagnolo o caratteri come la ö del tedesco? Nel racconto ci sono esempi di frasi con tutti questi simboli che non compaiono nell’alfabeto generatore. Borges lo risolve con una codifica dei nuovi simboli a partire dai venticinque primigeni. Dice: «Un numero n di lingue possibili usa lo stesso vocabolario; in alcune, il simbolo biblioteca [....] è pane o piramide o qualsiasi altra cosa». Effettivamente, può sempre essere fatto con successioni dei simboli primitivi, così come si procede nelle crittografie: la á può essere rappresentata, ad esempio, come la successione dei simboli aacento, o, come l’insieme, a. La stessa convenzione si applicherebbe alle altre vocali accentate. Allo stesso modo, la A maiuscola potrebbe essere espressa come la successione amai,uscola o con qualsiasi altra convenzione che usi solo i simboli iniziali. La seconda questione riguarda la lunghezza dei volumi, limitata a quattrocentodieci pagine. Indubbiamente, si dovrebbe poter trovare su qualche scaffale il Don Chisciotte, Le mille e una notte o Alla ricerca del tempo perduto. Anche l’ultima edizione del Dizionario della Real Academia spagnola o l’Enciclopedia Britannica. Ma tutti questi libri, perfettamente concepibili, e anche reali, occupano molto più dello spazio di quattrocentodieci pagine assegnato a ciascun volume. Ancora più elementare: possiamo benissimo immaginare il libro costituito dalla lettera “a” ripetuta dalla prima all’ultima riga di un volume di quattrocentodieci pagine, e che prosegua ancora per una riga. Quel libro che ha una riga di caratteri in più rispetto alle condizioni postulate, come si troverebbe nella biblioteca? Arriviamo al punto cruciale, all’enigma che Borges pone all’interno del racconto. Nel descrivere le caratteristiche dei volumi della Biblioteca, si dice: «Vi sono anche delle lettere sul dorso di ciascun libro; queste lettere non indicano o prefigurano ciò che diranno le pagine. So che questa incoerenza, un tempo, parve misteriosa. Prima di accennare alla soluzione (la cui scoperta, a prescindere dalle sue tragiche proiezioni, è forse il fatto capitale della storia) vorrei rammentare alcuni assiomi». La funzione di queste lettere sul dorso, il fatto capitale della storia, sarà rivelato, promette, verso la fine. Ma quando il racconto sta ormai per finire, appare soltanto, o riappare, la domanda se la Biblioteca sia infinita o finita. Si dice che «non è illogico pensare che il mondo sia infinito» e allo stesso tempo si ricorda che c’è un limite al numero di volumi che si possono formare secondo le regole prestabilite. Orbene, se nella Biblioteca «perché un libro esista, basta che sia possibile», dovrebbe necessariamente essere infinita, perché possiamo concepire libri sempre più lunghi ( il libro composto da n tomi di libri già trovati è un libro possibile e diverso che dovrebbe a sua volta esserci). Come risolvere questi requisiti contraddittori? Borges si arrischia «a insinuare questa soluzione dell’antico problema: la biblioteca è illimitata e periodica... gli stessi volumi si ripetono». Tuttavia, prima si era detto che nella Biblioteca non ci sono due volumi identici. Allora? È qui che – oso dire io – le lettere sul dorso rivelano la loro importanza. I libri di più di quattrocentodieci pagine possono trovare la loro collocazione in più tomi, come accade in qualsiasi biblioteca. Qui si separano i concetti di “libro” e di “volume”. Le lettere sul dorso ( o la loro assenza) sono un modo per codificare se un libro faccia parte di una successione di tomi (due su tre, sette su dieci), o se si tratta di un unico volume. Le lettere non hanno quindi alcun legame apparente con il contenuto: indicano solo che il volume fa parte di un libro più lungo, e che anche gli altri tomi saranno nella Biblioteca. In questo modo, anche i libri di qualsiasi lunghezza trovano spazio, divisi in più volumi. Questo spiega anche la “periodicità” a cui si riferisce Borges: i tomi che compongono un libro di maggiori dimensioni appaiono “ripetuti”: ogni tomo, privo delle lettere sul dorso, sarà allo stesso tempo un volume unico, con la sua collocazione individuale. Tuttavia, come libri, non sono identici: la differenza sta nelle lettere sul dorso, che indicheranno se deve essere considerato «parte di qualcosa di più grande» o, se non ci sono lettere, «volume unico». Grazie a questi simboli esterni, la Biblioteca può espandersi, dar luogo a libri di lunghezza crescente e sembrare “illimitata”, almeno finché ci sia abbastanza spazio fisico per scrivere le lettere sul dorso. Sarebbe questa la soluzione a cui Borges pensava, la sua «elegante speranza»? P. S. Lo scrittore e fisico Alberto Rojo aggiunge questa interessante osservazione: si pensi al libro di 820 pagine che consista nella ripetizione di un’unica frase ( ad esempio, la perversione duplicata delle lettere M C V citate da Borges o la frase ossessiva che scrive il personaggio di Jack Nicholson in Shining). Questo libro in due tomi, senza lettere sul dorso, perfettamente immaginabi-le, non troverebbe posto nella Biblioteca di Babele, perché non sono ammessi volumi ripetuti. Traduzione di Luis E. Moriones