il Fatto Quotidiano, 23 agosto 2019
Gli ottant’nni di Chiedilo alla polvere
“Una sera me ne stavo a sedere sul letto della mia stanza d’albergo, a Bunker Hill, nel cuore di Los Angeles. Era un momento importante della mia vita; dovevo prendere una decisione nei confronti dell’albergo. O pagavo, o me ne andavo: così diceva il biglietto che la padrona mi aveva infilato sotto la porta. Era un bel problema, degno della massima attenzione. Lo risolsi spegnendo la luce e andandomene a letto.” Così inizia Chiedi alla polvere, il romanzo più conosciuto di John Fante, pubblicato nel 1939, forse il più rappresentativo, con l’intimo uso della prima persona, e l’ironia salvifica e feroce.
Io l’ho conosciuto con Aspetta primavera, Bandini, romanzo d’esordio. Fu un fragore, un’esplosione, come se tutto in me fosse andato all’aria per poi ritrovare un posto nuovo, una funzione diversa dalla precedente. Una voce senza distacco, come se la terza persona che raccontava la vicenda dei Bandini, uscisse dalle pagine per condurmi in Colorado, dove il ghiaccio impedisce a un muratore di lavorare e comprare pane, e mi dicesse: guarda com’è facile diventare meschini, disumani.
John Fante nacque l’8 aprile 1909 a Denver, figlio di Nick Fante, migrante abruzzese di Torricella Peligna, il paese in cui si svolge il Festival “Il Dio di Mio Padre” dedicato allo scrittore, e da Mary Capoluongo, nata da un sarto di origini lucane. Pochi come lui sono stati in grado di raccontare lo spaesamento, la sensazione di essere costantemente fuori posto, passeggeri abusivi su una crociera di lusso, confinati nella stiva, mentre gli altri ballano e si divertono. Il bisogno di riscatto.
Dago red, non è solo il titolo di una sua raccolta di racconti, ma un segno distintivo, uno stigma. A “red”, il vino rosso e forte, si unisce Dago (pron. dey-goh), uno degli epiteti destinati ai migranti italiani negli Stati Uniti. La parola potrebbe derivare da they go; oppure until the day goes, per indicare i lavoratori a giornata, o da dagger coltello, gente dalla lama facile. Lo utilizzò già nel 1904 Giovanni Pascoli, in Italy, dove il poeta parla di migrazione: “… dietro mormorare odono DEGO”.
E venne rispolverato per Giacomo “Ago” Agostini che nel 1974 partecipava alla 200 miglia di Daytona: Ago-Dago, per indicare l’inferiorità del pilota italiano nei confronti degli statunitensi. Agostini vinse la gara.
Nell’invitarmi a scrivere queste righe mi è stato chiesto come John Fante potrebbe contribuire al dibattito sul fenomeno migratorio. Credo che non avrebbe un’opinione in merito, e provo a spiegarmi. I sondaggi sul senso di insicurezza per la presenza di stranieri, ci dicono che la percentuale più alta di insicuri che invocano il respingimento come unica soluzione, si trova fra persone che escono poco di casa, col televisore sempre acceso, bassa scolarizzazione, che mai hanno avuto contatti con uno straniero e gli anziani. Chi viaggia, legge, ed è giovane, non capisce il senso della domanda. Non riconosce come straniero uno che è compagno di banco, con cui va in palestra, al cinema. La multiculturalità è già un dato di fatto.
E gli episodi di bullismo in questo contesto, credo, avvengono perché siamo noi adulti a indicare il bersaglio, a dire che la mancanza di realizzazione e il disagio tipico dell’età, sono causati dalla presenza del diverso. E torno a John Fante. Non avrebbe un’opinione sulla migrazione perché per lui non era un fenomeno, ma una condizione; né credo gli importasse il motivo per cui la gente emigri (siamo forse nati ancorati alla terra come gli alberi?). Può dirci, piuttosto, cosa significhi essere un migrante, di passaggio, portatori di quell’impermanenza che definisce ogni essere vivente. E mortale.
Vivere, e morire, sono cose difficilissime, e non basta una vita a prepararci al compito. Ma un artista ci può condurre per mano sull’orlo dell’abisso (accadde a me con Aspetta primavera, Bandini) e sussurrarci: farà paura, ci sarà dolore, pianto, cicatrici, ti avevano detto che sarebbe stato facile, e invece. Ma si può fare, e ti mostro la via.
La cultura, l’arte, non sono sostantivi, ma avverbi di modo, come affrontare la vita, a dieci o a cento anni. E se pensi di non riuscire e la paura ti assale, chiedi alla polvere. Chiedi a John Fante.