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 2019  agosto 23 Venerdì calendario

Ritratto di Marta Cartabbia


Prima vicepresidente femmina della Corte Costituzionale. Prima presidente femmina del Consiglio dei ministri. E, perché no, in un futuro appena meno prossimo, prima presidente femmina della Repubblica. Molti futuri, forse troppi, si affollano nel presente di Marta Cartabia, 56enne giurista varesina, madre di tre figli. Sono tre futuri segnati da una unica, cruciale, caratteristica: sarà lei, in un modo o nell’altro, a sancire l’ingresso del gentil sesso in una delle tre sole cariche pubbliche ancora, e senza alcun motivo, rimaste appannaggio dei maschi. Quali e quante di queste cariche sia destinata a coprire davvero, lo si scoprirà solo nei mesi che incombono. Comunque vada, la Cartabia un posto nella storia del Paese, nella cronologia della conquista femminile del potere, se l’è assicurato.
L’altro ieri, quando per la prima volta il suo nome è entrato in circolazione come premier ipotetico di un «governo del Presidente», scialuppa istituzionale di salvataggio dalle procelle della crisi, si sono stupiti in pochi. Perché da otto anni, quando Giorgio Napolitano la esfiltrò dall’habitat accademico e la catapultò ad appena 48 anni alla Corte Costituzionale, uno dei giudici più giovani della storia della Consulta, addosso alla Cartabia è stato cucito un abito perfetto da donna delle Istituzioni, mix inappuntabile di quei tre elementi cruciali – autorevolezza, indipendenza, riserbo – che, insieme a una solida e non appariscente capacità di relazioni, delineano la figura del civil servant, la risorsa cui lo Stato può aggrapparsi nel momento del bisogno. Il momento, a quanto pare, è arrivato.
Fin dall’inizio di questa fase della sua vita, l’ordinaria di Diritto Costituzionale all’Università di Milano-Bicocca, sapeva di portarsi dietro una sorta di marchio o di zavorra: l’etichetta di Comunione e Liberazione, il movimento cattolico in cui si è formata dalla adolescenza, negli anni in cui a Varese la predicazione ciellina avveniva nel segno di un leader carismatico come don Fabio Baroncini. Da allora, la formazione culturale e religiosa di Marta Cartabia è avvenuta tutta nel solco del movimento fondato da don Giussani e oggi guidata da Juliàn Carron, il presbitero spagnolo di cui l’ex studentessa varesina è divenuta amica e a volte consigliera. E anche oggi, nonostante tentativi non richiesti di smacchiarne l’immagine dalla «colpa» ciellina, la Cartabia non rinnega né origini né militanza. Basti pensare che appena arrivata alla Consulta, nel 2011, scelse come assistente un giovane e brillante magistrato milanese, Tommaso Epidendio, profondamente legato a Comunione e Liberazione. E d’altronde anche in questi giorni, mentre già il suo nome agitava il tamtam della politica romana, dov’era la Cartabia? A Rimini, al meeting annuale di Cl: prima a presentare il documentario sul viaggio della Consulta nelle carceri italiane, poi, in prima fila, ad ascoltare il rabbino americano Joseph Weiler, una delle voci più attese ed ascoltate del meeting.
Solo una sparuta organizzazione Lgbt ha osato, in questi anni, rinfacciarle le sue convinzioni in materia di famiglie tradizionali. Nel segreto delle camere di consiglio della Corte Costituzionale, solo lei sa con quale intensità si sia battuta contro sentenze che rischiavano di essere divisive, come quella sul suicidio assistito. Ma una volta raggiunta (o subita) la mediazione, da lei non è uscita una parola di contrasto o dissociazione. Le istituzioni prima di tutto, insomma. Anzi, una istituzione: la giustizia, la legge. Del cui primato sulla politica (e sulle sue protervie) la Cartabia è una teorica convinta: donna adatta per questa stagione cupa.
Poi, però, ci sono i problemi prosaici: a settembre, dopo due tentativi falliti, diventerà presidente della Consulta. Le conviene rinunciare per un soggiorno a Palazzo Chigi tanto prestigioso quanto effimero?