la Repubblica, 23 agosto 2019
Amatrice, il paese del macerie
Bisogna aspettare il buio, per capire il dolore di questa città ferita. Bisogna attendere la partenza degli ultimi turisti, contenti per i piatti di spaghetti all’amatriciana o rigatoni alla gricia ma arrabbiati per quei cartelli («No selfie. Luogo di rispetto») che impediscono di mandare agli amici i propri volti sorridenti con lo sfondo delle chiese distrutte. «Ma come, hanno messo di guardia dei soldati armati?». Amatrice ha bisogno di tutti e inventa anche il “Festival delle ciaramelle” (specie di cornamuse fatte di pelle di pecora) per presentarsi come una comunità che vuole rinascere ed è ancora capace di sorridere. Ma ha anche bisogno di restare sola. Lo farà stanotte, con una fiaccolata che si chiuderà alle 3.36, con «la lettura dei nomi delle 239 vittime del sisma del 2016 al rintocco delle campane». «Giornalisti e politici sono pregati di non partecipare». «Anche nei precedenti anniversari – dice il sindaco Antonio Fontanella – abbiamo voluto ritrovarci solo fra noi. Ogni nome è un colpo al cuore, ci conoscevamo tutti. Per poche ore, una sola volta all’anno, non vogliamo essere esposti alle telecamere».
Il buio è un sollievo perché copre il vuoto. Con il permesso del Comune, controllato dai militari, entri nella zona rossa e sei in un deserto. «Ecco, qui c’era la casa di… Il vicolo a destra portava…». La guida è Emma Moriconi, che lavora alla radio del Comune. Solo lei però riesce a vedere. Case, negozi, letti, armadi, giocattoli: tutto il cuore di Amatrice è stato portato via. E tutto ha un solo nome: maceria. Nella spianata restano solo i ruderi delle chiese di San Giovanni e di San Francesco e la torre civica stretta fra putrelle di ferro. «Siamo la città degli spaghetti all’amatriciana ma pochi sanno che siamo anche quella delle cento chiese. Le loro pietre non sono state toccate perché vincolate dalla Sovrintendenza».
C’erano 2.700 residenti, prima del sisma. Ora sono 1.500 e nessuno di loro è riuscito a tornare a casa. In estate – ad Amatrice e nelle 69 frazioni ci sono 5.000 edifici, in gran parte seconde case – si arrivava a 30 mila abitanti, 40 mila la settimana di ferragosto. «Le seconde case – dice il sindaco Antonio Fontanella – sono la linfa vitale della nostra economia. Stiamo pensando di costruire piazzole attrezzate per roulotte e case mobili, così chi veniva qui in estate può tornare almeno per qualche giorno. I bambini venivano con i genitori e i nonni, poi tornavano con i loro figli. Se si rompe il legame, qui crolla davvero tutto».
Anche per i residenti il futuro non è certo facile. La denuncia arriva dal vescovo di Rieti, Domenico Pompili: «La ricostruzione non è mai decollata. È tempo di agire, il tempo è diventato davvero breve. Lo Stato nell’emergenza ha funzionato bene, i governi invece si sono inceppati. Tre presidenti del Consiglio, tre commissari diversi. Manca la capacità di governare un vero processo di ricostruzione». «Qui ad Amatrice – racconta il sindaco – si stanno costruendo due condomini privati e forse la prossima estate potranno entrare cento persone. Quelli che non s ono andati via vivono in 537 Sai, soluzioni abitative di emergenza, che tutti chiamiamo casette. Sono tanti gli ostacoli per la ricostruzione, con normative, leggi, decreti, ordinanze (sono già un’ottantina) che cambiano o comunque non danno risultati. Non abbiamo tecnici – ingegneri, architetti, geometri, amministratori contabili – a sufficienza. Possiamo assumerli solo per tre anni e se trovano un lavoro non a termine vanno via prima. Noi ne abbiamo persi 9 su 27, e con i nuovi ogni volta si ricomincia da capo».
Troppi i lacci burocratici. «Come Comune, per approvare un progetto, ci chiedono di accertare la “regolarità storica”, per sapere se dieci o trent’anni prima sia stato fatto un abuso. E come possiamo riuscirci? Ci sono poi i vincoli ambientali, le ricerche geologiche… Noi possiamo soltanto certificare che il progetto è conforme al preesistente, permettendo così di ricostruire quello che c’era prima. Se invece, senza mezzi adeguati, dobbiamo applicare ogni norma e regola, il risultato sarà questo: perderemo gran parte delle risorse già messe a disposizione».
Basta un breve giro nelle casette per capire l’attaccamento di donne e uomini alle loro montagne. Nel mini giardino davanti a ogni container c’è chi ha piantato girasoli o rose, c’è chi ha fatto un orto con pomodori e melanzane. In un vaso l’abete per il prossimo Natale. Roberto si lamenta perché il pavimento si solleva e vorrebbe «le case di Berlusconi», come a L’Aquila. Antonio dice invece che lui, quando arrivò il terremoto del 1950, era un bambino. «E per mesi abbiamo dovuto dormire sotto gli alberi, aggiustandoci la casa da soli». Giuseppe racconta che il problema non è la casetta, ma la ricostruzione: «Se sto qui un anno, due o tre, si può resistere. Di più no, si deve andare via. Ma lo sa che solo adesso il nuovo sindaco sta presentando il piano di ricostruzione che doveva essere fatto dall’amministrazione precedente?».
C’è la nuova scuola – dalla materna al liceo – donata da Sergio Marchionne. Vengono a lezione qui anche i bambini di Accumoli, a 12,5 chilometri di strade con tornanti. «Il nostro paese – dice Stefano Petrucci, oggi vicesindaco ma primo cittadino fino a maggio – è l’esempio di ciò che non si deve fare dopo un terremoto. Il capoluogo è stato semplicemente distrutto. Siamo andati tutti – 660 residenti, oggi 450 – in hotel a San Benedetto del Tronto. Poi abbiamo montato 202 casette ma tutte lontane dal capoluogo, perché la Sovrintendenza non ha autorizzato la rimozione delle macerie. Sono tutti palazzi storici, hanno detto che debbono catalogare ogni pietra. In quanti decenni? Abbiamo aperto una scuola in un locale non adatto, perché quella promessa dal primo commissario è arrivata alla fine del luglio appena passato, e non nel settembre 2017. Così i nostri 40 bambini si sono iscritti ad Amatrice e ad Arquata e lì resteranno. Senza scuola niente bambini e niente giovani. Restano gli anziani, che non possono nemmeno andare a vedere le rovine del capoluogo perché i militari bloccano l’accesso a un chilometro di distanza. Ora Accumoli è una fila di container con negozi e servizi sulla Salaria. Le casette sono lontane. Da ottobre in poi, per il freddo, gli anziani non usciranno più dalle casette. Così si uccide un paese. E non solo per colpa del terremoto. Speriamo che gli altri paesi possano evitare questo disastro».