la Repubblica, 23 agosto 2019
«L’Amazzonia brucia. Fra dieci anni sparirà». Intervista allo scienziato brasiliano Ricardo Galvão,
Stiamo perdendo l’Amazzonia. Non sarà domani, non sarà tra cinque anni, ma “tra dieci, è garantito”.
Parola dello scienziato brasiliano Ricardo Galvão, a cui va il merito di avere diffuso i dati del 2019 sulla deforestazione della foresta pluviale brasiliana, che gli sono costati la carriera all’Inpe, l’Istituto nazionale per la ricerca spaziale brasiliana, di cui era direttore. Il presidente Jair Bolsonaro lo ha licenziato. I satelliti dell’Inpe hanno rilevato un aumento dell’83% dei roghi rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, da gennaio ad agosto: 73mila incendi contro 40mila. Lo scorso mese sono stati distrutti 2.254 km quadrati di vegetazione e la percentuale di deforestazione quest’anno è aumentata del 55% rispetto al 2018.
In Amazzonia si sono aperte le porte dell’inferno. Giù gli alberi, a fuoco la terra e via libera agli agricoltori con bestiame all’insediamento e pascolo nelle terre della foresta pluviale, anche in quelle dei popoli indigeni.
L’obiettivo: trasformare le terre amazzoniche in pascoli per l’allevamento del bestiame. Le nubi di fumo degli incendi sono arrivate lunedì alla città di San Paolo, distante 2.700 km, oscurando il sole e facendo piombare la città nell’oscurità due ore prima del tramonto. Bolsonaro nega il disastro ambientale e anche il cambiamento climatico, ma il suo insediamento corrisponde proprio all’inizio dell’agonia del polmone verde. Sue le parole “l’Amazzonia è nostra”, a un giornalista. E ancora, in campagna elettorale: «Neanche un centimetro di terra in più ai popoli indigeni».
Licenziato da Bolsonaro. Le ha spiegato perché?
«Non l’ho mai sentito. Mi ha licenziato con una nota inviata dal ministero della Scienza e della Tecnologia».
Qual è stata la reazione del presidente dopo che lei ha diffuso i dati sui roghi rilevati dai satelliti?
«La legge brasiliana mi obbliga a pubblicare i dati e gli avvertimenti sull’ambiente per quanto riguarda la deforestazione. A luglio i numeri mostravano un aumento drammatico. Il presidente, invece di entrare in azione per fermare la distruzione, mi ha accusato di mentire e di essere connivente con una Ong internazionale. Una reazione davvero stupida».
Come sta?
«In fondo mi sento triste. Non per me. Per i brasiliani, per la scienza brasiliana. Per il mondo. È impensabile controllare i cambiamenti climatici escludendo l’Amazzonia. Se arriviamo a una distruzione del 25%,, e dal 1988 abbiamo raggiunto il 10%, siamo a un punto di non ritorno. Se il governo non agisce velocemente, in 10 anni è finita. Non per noi, ma per il mondo».
Perché?
«In Brasile le piogge dipendono dalla foresta pluviale. E il riscaldamento globale dipende in gran parte dalla foresta amazzonica. Se la deforestazione raggiunge il 25%, l’Amazzonia diventa una savana.
Non pioverà neanche a Buenos Aires».
Com’erano le condizioni di lavoro dell’istituto di ricerche spaziali prima del governo Bolsonaro?
«Sotto la presidenza Lula, non buone. Nel 2003 ci fu un incremento della deforestazione: 27mila chilometri quadrati distrutti. La sua ministra dell’ambien te però era saggia. Marina Silva ci chiese di fare un monitoraggio quotidiano della foresta e di sviluppare un sistema di allerta quotidiano, che usiamo ancora. Dilma Rousseff non aveva alcun interesse, né a monitorare, né ad agire in favore dell’Amazzonia.
I numeri che avete diffuso sulla deforestazione sono drammatici.
L’aumento degli incendi coincide con l’insediamento di Bolsonaro.
«Durante la campagna elettorale il presidente non ha nascosto i suoi intenti. Non crede nel riscaldamento globale, e neanche nell’influenza dell’Amazzonia sui cambiamenti climatici. Lui si è preso l’Amazzonia come se fosse roba sua e non avesse nulla a che fare con il mondo. È una posizione misera, che apre implicitamente le porte della foresta a chi estrae il legno illegalmente».
C’è un modo per fermare questa distruzione?
«Bolsonaro è un politico. Non può chiudere gli occhi davanti all’indignazione della comunità internazionale. Non gli conviene economicamente».
E i brasiliani?
«Sono un popolo forte. Che ora ha paura. Quando ho tenuto il mio discorso all’università qualche giorno fa, mi hanno chiesto: “Ma stiamo tornando ai tempi bui” della dittatura militare? Ho risposto che ora è diverso. Che non rimarremo in silenzio. La gente sta iniziando ad alzare la voce sui social ad esempio».
Che cosa farà ora?
«L’Olanda e il Portogallo mi hanno fatto un’offerta di lavoro. Ma il mio posto è qui, in Brasile. Non me ne vado».