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 2019  agosto 23 Venerdì calendario

Dietro le facce dei politici

Più delle parole, che la politica rende ambigue e opache, possono i volti e i gesti, trasparenti a tradimento. Così le cinque facce da crisi viste ieri al Quirinale raccontano quel che i leader non dicono. In ordine di apparizione.
La commandante
Una donna sola al commando: Giorgia Meloni un passo avanti a due dioscuri sonnolenti, forse i fratelli d’Italia. Ci mette energia, soprattutto sulle sillabe finali, accentate per regola o per forza. Si guarda intorno, prende spesso fiato, sgrana gli occhi sul viso pallido di chi, a differenza d’altri, non è tornato dalle ferie. Comunica ansia di entrare finalmente in una stanza dei bottoni, timore di aver perso il filo e l’occasione, dubbio di non avere studiato come si deve la lezione. E quando interpreta la costituzione, nonostante il professorale dito puntato, il sospetto si veste di certezza, indossando un tailleur.
Il collegiale
Per il debutto al Quirinale Nicola Zingaretti sceglie una formazione a testuggine: oltre ai capigruppo si porta vice e presidente, dando un’impressione di squadra che si muove compatta. Infatti escono in fila con lo stesso sorriso. Lo spegneranno a comando appena espressa la formula «siamo preoccupati» e così rimarranno: istituzionali, disponibili, ma turbati. Del segretario pd tutto si può pensare fuorché esista nella sua famiglia un dna da attore. Gli manca perfino la seconda espressione, quella di Clint Eastwood con il capello. Pronuncia più volte la parola “svolta” e ti chiedi come possa avere soprassalti, ma è proprio quella la differenza che incarna: dopo Berlusconi e Renzi, Grillo e Salvini è quest’ansa di fiume immota la novità. Dopo il troppo dire, non fare e baciare, che cosa è più sorprendente di un politico che elenca cinque punti mentre ne ha presentati altri tre di cui tace? Non scoppietta, non vibra d’indignazione, non sembra neppure sorpreso di trovarsi dov’è. Nella sua indecifrabilità porta il segno di questa crisi o forse la sua ordinaria evoluzione.
Il cavaliere irrilevante
C’è una mimica castrante in Silvio Berlusconi, proprio quando si riprende la scena. Evitata la trappola ipnotica della identità di cravatta e pelle rispetto al corrivo Tajani, ci si immalinconisce vedendo un uomo di tale spettacolarità che si autoconfina nel più implausibile degli esordi: «Poiché non siamo degli improvvisatori...». E legge, da fogli stampati, con i passaggi chiave evidenziati. A occhi bassi sul testo non è più lui, è uscito dal personaggio e non lo ripesca neppure la inspiegabile curiosità che freme dietro le lunghe ciglia della capogruppo Bernini. È quando non resiste alla vocazione e accende l’ologramma del gran guitto che fu. Alza lo sguardo, rivede mondi e ce ne mostra l’incanto evocando esotici capi di governo giapponesi, sussurranti cancelliere tedesche e poi, non più disponibili i cosacchi a San Pietro, i legislatori francesi che scavalcano le Alpi per portare via metà del gruzzolo agli eredi di papà e mamma che l’aspettavano come uccellini nel nido. Se ne va agitando l’ultima profezia minacciosa: lo strangolamento dell’editoria. Ed è solo quando ripiega i fogli e li brandisce che i giornalisti tramortiti lo riconoscono: era, è stato, Silvio Berlusconi.
Adrian
Per capire che cosa volesse veramente Matteo Salvini, impresa divenuta inaspettatamente complessa negli ultimi giorni, non occorreva tanto osservare il viso, quanto le mani. E ricordarsi una vecchia canzone di Adriano Celentano. Si intitolava Una carezza in un pugno. Il testo sarebbe oggi giudicato inopportuno quando dice: «Ma non vorrei che tu a mezzanotte e tre stai già pensando a un altro uomo. Mi sento già sperduto e la mia mano dove prima tu brillavi, è diventata un pugno chiuso, sai. Cattivo come adesso non lo sono stato mai». Il pugno del monoleghista è serrato quando batte sui soliti tasti della manovra coraggiosa che pretende (ma non ha attuato), del distacco dalla poltrona (che ancora detiene), del futuro che vuole costruire per chi lo ascolta dagli uffici e dalle aziende (dove non ha mai lavorato). Con il voto popolare vuole abbattere chi si frappone. Ammenoché. Gli parte un “se”, un segnale nervoso che fa aprire la mano, mostra il palmo, si tende: «E quando mezzanotte viene se davvero mi vuoi bene pensami mezz’ora almeno e dal pugno chiuso una carezza nascerà». È l’offerta a Di Maio. È questo che aveva veramente da dire, prima di andarsene con un bacione (ce n’è sempre un ultimo) lanciato al vuoto.
Lo stregatto
E per ultimo venne Di Maio, il piccolo fiammiferaio con il cerino in mano, l’aria compita che piace alle nonne e le dita che cercano di abbottonare una giacca troppo stretta, poiché ha un destino fuori misura. La cifra del suo intervento non è nei “dieci punti”, che fanno comunque classifica, ma nel sorriso che gli sboccia malizioso quando, uscito dal tunnel dell’elenco dice: «Ma il voto...» e implica: te lo puoi scordare. È il graffio del gattino che si sente tigre, la beata vanità del mazziere davanti a due giocatori che hanno già scoperto le carte. Stavolta è lui a sentirsi capitano, ma con l’abbigliamento del fuochista cantato da De Gregori: «Una giacchetta per coprirti e un berretto per salutare in questa nera nera nave che mi dicono che non può affondare».