Il Giornale, 22 agosto 2019
L’estate del 1959
Nell’Italia in bianco e nero di sessant’anni fa brilla un’estate feconda di esiti letterari e cinematografici. Tra il giugno e il settembre 1959 si consumano i riti del premio Strega e della Mostra del cinema di Venezia con un novero piuttosto significativo di opere che hanno segnato il nostro immaginario. Con un piede già nel miracolo economico, il Belpaese cattura l’istantanea del passaggio tra retaggio agreste e dimensione urbana in tre libri della dozzina finalista dello Strega: Una vita violenta di Pasolini, storia di un giovane della borgata romana che, tra degrado e delinquenza, trova un possibile riscatto con un gesto di umanità nell’ora della morte; Donnarumma all’assalto di Ottieri che racconta l’organizzazione capitalistica del lavoro in una grande industria del Mezzogiorno; Il ponte della Ghisolfa di Testori, affresco della periferia milanese tra operai, sfaccendati, prostitute, aspiranti campioni sportivi in lotta per la sopravvivenza. Al Ninfeo di Villa Giulia a luglio la spunta Il Gattopardo, uscito postumo l’anno prima. La vittoria di Tomasi di Lampedusa sarà così liquidata da Moravia: “È un libro di destra e sono stati gli uomini di destra a decretarne il successo”. Pubblicato da Feltrinelli e inviso all’intellighenzia comunista per il suo sguardo “reazionario” sul Risorgimento, il romanzo fu ostracizzato da più parti. Pasolini si prodigò in prima persona per riuscire a imporsi ma dovette accontentarsi del terzo posto. A rovinargli la festa ci si mise anche Fenoglio col suo Primavera di bellezza, parabola partigiana nelle Langhe, pubblicato dal suo stesso editore, Garzanti, e Pasolini non perdonò mai all’autore di Alba di non essersi fatto da parte. Alla finale del 7 luglio, ad assistere al trionfo dello scomparso principe siciliano, ci sarà Luchino Visconti che l’anno successivo girerà Rocco e i suoi fratelli ispirandosi a Testori e che nel 1963 firmerà proprio la versione cinematografica del Gattopardo con il volto di Burt Lancaster.
In una nebbia fittissima di dispute ideologiche, i due film che a settembre si impongono a Venezia, con un Leone d’oro ex aequo, interrogano la storia nazionale e la rileggono da prospettive singolari. A seguire un ideale asse cronologico (da menzionare anche Estate violenta di Zurlini che quell’anno commuove con una storia d’amore ambientata tra il luglio e il settembre del 1943) abbiamo La grande guerra di Monicelli con il primo conflitto mondiale del ’15-’18 e Il generale Della Rovere di Rossellini, centrato sulla Resistenza. Il capolavoro di Monicelli è preceduto da una campagna stampa ostile. L’accusa contro il regista toscano è quella di voler ridicolizzare l’amor patrio. Il produttore De Laurentiis prese in mano la situazione e dopo un paio di colloqui con l’allora ministro della difesa Andreotti riuscì a ottenere il via libera del governo. Il film racconta di due soldati: Jacovacci (Sordi), romano furbo e scansafatiche, e Busacca (Gassman), milanese burbero ma dal cuore d’oro. I due stringono amicizia e cercano di sopravvivere insieme alla vita di trincea. Dopo la disfatta di Caporetto, si fanno sorprendere da un battaglione di austriaci. Visto lo scherno e il disprezzo dei nemici nei loro confronti ritrovano la loro dignità rifiutandosi di fornire informazioni e finiscono fucilati. Uno stesso scenario di eroismo atipico è narrato da Rossellini nel suo Generale Della Rovere, tratto da un racconto di Montanelli (che polemizzò con la sceneggiatura di Amidei per aver sostituito il congedo finale “Viva il Re!” con il politicamente corretto “Viva l’Italia!”) e interpretato da Vittorio De Sica. Su pressione dei tedeschi, un guitto accetta di recitare la parte di un generale lealista e antirepubblichino nel carcere di San Vittore allo scopo di carpire informazioni ai resistenti detenuti. Ma succede l’imprevisto: il truffatore si identifica sempre di più nel suo personaggio, si rifiuta di collaborare e diventa davvero l’eroe che i compagni di carcere credono che sia davanti al plotone di esecuzione.
Un’estate artistica divisa tra modernità (i rivoluzionari anni Sessanta bussano alla porta) e memoria storica che si potrebbe sublimare, a mo’ di eterno refrain identitario, nella celeberrima frase che Tancredi indirizza al principe di Salina nel Gattopardo: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.