il Fatto Quotidiano, 22 agosto 2019
Gli amori di Pattie Boyd
Londra. Paddington Station. Un sussulto e il treno si avvia. Un ragazzo con gli occhi di velluto e una scolaretta siedono l’uno di fronte all’altra. L’atmosfera è fresca, leggera. Chiacchierano del più e del meno: lui fa qualche battuta, lei sorride. “Mi vuoi sposare?”, le chiede all’improvviso. Lei scoppia a ridere. ‘È uno scherzo’, pensa. “Be’, se proprio non vuoi sposarmi – insiste lui – verresti almeno a cena con me?”. Il cambio di programma è ancora più esilarante. La scolaretta è senza parole. Non può, spiega: il suo ragazzo non approverebbe. Potrebbero cenare tutti e tre insieme, rilancia lei. Gli occhi di velluto sorridono, ma declinano, cortesemente.
La giornata finisce, il treno rientra, i due scendono, si salutano e ognuno se ne va per la sua strada. Nell’aria, l’elettricità di cose che avrebbero potuto essere ma non sono state. Lei ha diciannove anni, si chiama Pattie e fa la modella. Dicono somigli alla Bardot. Lei si schermisce e aspetta la sua occasione. Un giorno, forse, chissà. Intanto la sua agenzia l’ha spedita a Paddington, per fare la comparsa in un film. Il ragazzo con gli occhi di velluto, invece, di anni ne ha ventuno. Si chiama George ed è uno dei protagonisti di quel film. Non è un attore, però. Suona la chitarra. Per lui, l’occasione giusta è arrivata. Né lui né i suoi tre amici se la sono lasciata scappare. Capelli a caschetto e frangetta, stivaletti a punta sotto pantaloni a sigaretta, giacca e cravatta. Con il loro irriverente ‘Yeah, yeah, yeah!’ stanno facendo impazzire i teenager di tutto il mondo. Si fanno chiamare “The Beatles” e il timido George – Harrison – è la chitarra solista. Un fuoco di paglia, secondo i mille Catone della modernità. Solo rumore. Anche da noi i benpensanti storcono il naso. Niente diretta tv per il primo live italiano dei Fab Four: di quei ragazzi, ‘tra un mese non si ricorderà più nessuno’. Più di mezzo secolo ci separa da quel vaticinio e i Beatles sono ancora la rock band più grande e amata, e uno dei più folgoranti social network della contemporaneità. Tant’è.
Ritroviamo la scolaretta in uno squallido seminterrato di Soho, durante gli scatti per un insignificante catalogo di moda. In una pausa, confessa a un’amica di aver rifiutato l’invito a cena di uno dei Beatles. “Devi essere completamente fuori di testa!”, s’infiamma l’altra. Per la giovane modella, però, la fortuna è come il postino: suona sempre due volte. Qualche giorno dopo, infatti, lei e occhi di velluto si incontrano di nuovo. È una sessione fotografica per la stampa: quattro ragazze sono state ingaggiate per mettersi alle spalle dei Beatles e fingere di sistemargli i capelli. Pattie, ovviamente, punta dritta il suo George. “Come sta il tuo ragazzo?”. “L’ho mollato”. Il Beatle sorride e rinnova l’invito. Questa volta Pattie – Boyd – accetta. Il resto, è storia. La storia di una delle love-story più intense e rockambolesche del jet-set musicale. È per lei che George scrive Something: secondo Frank Sinatra, “la più bella canzone d’amore mai scritta”. Rose, certo. Ma anche spine. Molte. Troppe. Strappano la pelle e fanno sanguinare. La separazione per i tour e le interminabili session di registrazione, l’assillo di giornalisti e fotografi, le fan che la minacciano per essersi portata via il loro George. E, naturalmente, le spire devastanti della psichedelia: alcol, droghe, sesso e ogni genere di viaggio. Gli amori degli dèi scricchiolano per le stesse ragioni di quelli dei comuni mortali: quando cadono, però, il frastuono è insostenibile. “Mi sentivo non amata e infelice”, confesserà Pattie. Un bel giorno – i due sono sposati da tre anni – riceve una lettera. “La mia vita privata – scrive un ammiratore misterioso – è una farsa inarrestabile, che giorno dopo giorno degenera in modo intollerabile… sembra un’eternità dall’ultima volta che ti ho vista e ti ho parlato”. Ami ancora tuo marito?, chiede. Deve saperlo. Qualunque sia la risposta. Solo così potrà darsi pace. Firmato: “con tutto il mio amore. e”.
La minuscola non è una congiunzione ma l’iniziale di un altro dio: Eric Clapton, uno dei più grandi chitarristi di tutti i tempi. Per Rolling Stone, il numero 2 dei 100 più grandi di sempre. Davanti a lui, solo Jimi Hendrix. Harrison è undicesimo. Clapton is God, si legge sui muri della swinging London. “È la lettera più appassionata che mi avessero mai scritto”, scriverà Pattie. Il corteggiamento si fa ogni giorno più insistente: una sfida a colpi di note e versi. “Sono in ginocchio per te, ti sto implorando: tesoro, non vuoi dar pace alla mia mente tormentata?”, canta Clapton in Layla. Lei resiste. Lui minaccia di farsi consolare dall’eroina. Così farà. Una discesa all’Inferno lunga tre anni. Lui in un abisso, lei in un altro: indifferenza, freddezza e continui tradimenti di George. E, così, Pattie volerà da un dio all’altro. La musica cambierà. Per loro, però, non per lei. E il nuovo abbraccio si rivelerà mortale quanto il primo. A cosa serve essere la musa di due grandi artisti, ispirare capolavori cantati da folle deliranti, sentirsi sussurrare Your’re Wonderful Tonight, se il tuo regno è la desolazione, e quello che credi il tuo castello non è altro che una prigione? E se non sono le altre donne, è la droga; se non è la droga, è l’alcol; se non è l’alcol, è il palco. E in quei rarissimi istanti nei quali queste cose sembrano dissolversi e ti illudi di avere il tuo amore tutto per te, ti ritrovi davanti il muro più alto e invalicabile di tutti: la musica. “Vanno a letto con Gilda e si risvegliano con me”, commentava, amaramente, Rita Hayworth. La tua stessa amarezza, Pattie imbronciata come la Kore di Euthydikos, che sei andata a letto col rock e ti sei svegliata accanto a un’altra parola di quattro lettere, ma infinitamente più dolorose: sola.