Corriere della Sera, 22 agosto 2019
Koons e Hirts a confronto
Il protagonista de «La carta e il territorio» di Michel Houellebecq è un immaginario artista d’avanguardia. Si chiama Jed Martin. In apertura di questo romanzo – tra le più originali riletture in chiave narrativa dei paesaggi dell’arte del nostro tempo – incontriamo Jed Martin intento a realizzare un omaggio a due tra le maggiori celebrities dell’arte contemporanea: Jeff Koons e Damien Hirst. Nel suo quadro iperrealista, un po’ alla Lucian Freud, egli ritrae, nella stanza di un lussuoso hotel del Medio Oriente, le due artistar. Indossano abiti neri, camicie bianche, cravatte nere. Ecco Koons: incarna una «contraddizione insormontabile tra la scaltrezza ordinaria dell’agente di commercio e l’esaltazione dell’asceta». Ed ecco Hirst: sta bevendo una birra; ha l’aria cupa; il volto rubicondo; appare cinico.
Koons e Hirst, dunque. Non nemici, ma antagonisti. Tante differenze, alcuni affinità. Entrambi non provengono da formazioni accademiche. Koons – fine anni 70 – trascorre i suoi anni giovanili come operatore di borsa a Wall Street. Subito dopo inizia la carriera da controverso «artista di successo». Secondo molti, un cialtrone, un disinvolto banditore di se stesso, un furbo conoscitore delle regole del marketing, un divo della società dello spettacolo, un interprete di quella economia della notorietà che assegna un’assoluta centralità alla griffe, stanco epigono di Warhol, abile nel valorizzare in maniera iperbolica i suoi «feticci», tra le più potenti espressioni del declino dell’arte contemporanea verso i territori del kitsch, creatore di sculture prodotte con procedimenti che escludono ogni intervento manuale, tirate in vari esemplari.
Anche Hirst è un outsider. Ex punk proveniente dalla periferia proletaria di Leeds, occupa il salotto buono dell’arte quasi da usurpatore. Per tanti, è solo un artista sopravvalutato. Un bluff, senza talento. Un impertinente esibizionista. Un imbroglio alimentato da galleristi cinici. Un pubblicitario. Un profanatore che conosce bene le regole dei media. Un abile impresario di se stesso, privo di ogni formazione, incapace di disegnare, di dipingere, di scolpire, pronto a delegare a un team di collaboratori la realizzazione di quadri, sculture, installazioni. Un bad boy, che sa far discutere di sé e riesce ad alimentare calcolate polemiche. Un anti-intellettuale, che tende a non teorizzare, ostentando la propria ignoranza. «The hooligan genius», lo ha definito Arthur C. Danto.
Siamo dinanzi a due personalità che, pur seguendo sentieri diversi, sembrano muoversi sugli stessi territori, in bilico tra sapienza comunicativa, immediatezza visiva, fascinazioni storico-artistiche ed edonismo finanziario. Insofferenti nei confronti delle istanze concettuali e minimaliste, profondamente legati alle poetiche pop, Koons e Hirst pensano le proprie opere come esercizi «immediati» capaci di imporsi alla nostra attenzione con efficacia televisivo-pubblicitaria. La loro sfida consiste nel sublimare elementi anonimi, come palloni da basket, ciondoli, bambole, orsacchiotti, aspirapolveri, pornostar (Koons) e squali, mucche, insetti, teschi, pillole (Hirst). Nel decretare il trionfo del «falso incanto» della merce. Nel condurre quel che è fringe (ciò che è marginale ed estraneo all’universo estetico) verso una dimensione «assoluta». Nell’«artificare», potremmo dire richiamandoci a un’analisi del filosofo Mario Perniola, ciò che è ovvio: ovvero, nel «trasformare in qualcosa di emozionante (...) una entità che non riesce a manifestarsi da sola come tale». Per effettuare questo passaggio, sia Koons che Hirst guardano dietro di sé: l’artista statunitense si ispira al gusto formalistico del Neoclassicismo, mentre quello inglese guarda al Gotico e al Barocco.
Due fratelli involontari, allora? No. Siamo di fronte a due star dell’arte che sembrano diventare rivali soprattutto sul piano economico-finanziario. Come pochi altri, entrambi hanno capito che il mercato, ha osservato Robert Hughes, è «il manufatto culturale della seconda metà del ventesimo secolo, più straordinario di qualunque altro dipinto o scultura». Del resto, come aveva affermato Warhol, «a Business Art è il gradino subito dopo l’arte».
Accettando le regole imposte dall’art system, questi due artisti sembrano sfidarsi per le quotazioni delle loro opere. For the Love of God di Hirst – il teschio tempestato di diamanti – nel 2017 è stato battuto all’asta per 50 milioni di sterline (fino ad allora prezzo record per un artista vivente). Un exploit superato da Rabbit di Koons, che è stato venduto quest’anno per 91,1 milioni di dollari da Christie’s.
Ma – ne siamo certi – nel futuro, Hirst e Koons continueranno ancora a sfidarsi. Per contendersi il trono di Re Mida dell’arte contemporanea.