la Repubblica, 22 agosto 2019
Intervista a George R.R. Martin (s’è finalmente liberato del Trono di Spade)
Se George R. R. Martin potesse esprimere un desiderio, sarebbe sicuramente avere più tempo. L’autore di bestseller come la saga Cronache del ghiaccio e del fuoco, divenuta poi il fenomeno televisiv o Il Trono di Spade è a Londra per un colloquio con lo storico Dan Jones sul suo ultimo lavoro pubblicato, Fuoco e sangue (in Italia è uscito a fine 2018 per Mondadori, ndt ), fantasiosa storia della dinastia Targaryen (gli invincibili antenati della regina dei draghi Daenerys), prima di recarsi al Worldcon, il Convegno internazionale di fantascienza di Dublino. Martin, in realtà, è molto preso dalle opere che devono ancora uscire. The Winds of Winter, sesto e penultimo libro delle Cronache del ghiaccio e del fuoco, sta per ultimarlo, mentre il settimo, A Dream of Spring, lo deve ancora scrivere. Ci sono poi due racconti di cui sono protagonisti Dunk ed Egg, ambientati nello stesso mondo, da completare. Questo oltre ai tanti progetti televisivi a cui partecipa, nati grazie al successo della serie. Diversi prequel – tra cui uno scritto da Jane Goldman, «ambientato cinquemila anni prima degli eventi di Trono di spade» e attualmente in post-produzione – una versione televisiva di Wild Cards, serie antologica di romanzi e racconti di fantascienza e supereroi da lui curata, e un adattamento della storia fantasy Who Fears Death dello scrittore nigeriano-americano Nnedi Okorafor, che sta producendo per Hbo. «Ho bisogno di più ore al giorno e più giorni alla settimana e più mesi all’anno perché il tempo sembra andare molto velocemente», ammette con un sorriso stanco. Evita di rispondere alla domanda se abbia visto l’ultimo episodio televisivo con un fermo: «Non dovremmo parlarne».
Concorda, tuttavia, sul fatto che la fine della serie lo ha sollevato da una grande pressione. «Ci sono stati un paio d’anni in cui, se avessi potuto finire il libro, sarei potuto rimanere al passo della serie per un altro po’, ma lo stress era enorme», dice. «Non credo che sia stato molto buono per me, perché ciò che avrebbe dovuto farmi andare più veloce in realtà mi rallentava. Ogni giorno mi sedevo a scrivere e anche se avevo una buona giornata – e una buona giornata per me significa tre o quattro pagine – mi sentivo malissimo perché pensavo: “Mio Dio, devo finire il libro. Ho scritto solo quattro pagine quando avrei dovuto scriverne quaranta. Ma la chiusura della serie è stata una liberazione, perché ora ho ritrovato il mio ritmo. Ci sono giornate buone e giornate meno buone, ma lo stress è molto minore, anche se c’è sempre».
È chiaro che ha un rapporto complicato, e probabilmente irrisolto, con Il Trono di Spade. Alla domanda se il finale televisivo – che ha suscitato reazioni contrastanti da parte della critica e dei fan – influenzi il suo, risponde senza esitare. «No, assolutamente. Non cambia nulla... Come dice Rick Nelson in Garden Party, una delle mie canzoni preferite, non puoi far contenti tutti, quindi devi far contento te stesso».
Con questa idea ha affrontato
Fuoco e sangue, che nasce dal suo desiderio di «riprendere storie popolari.... i sontuosi banchetti, le guerre, le conquiste, i matrimoni e le faide» – anche se riconosce che non tutti i fan sono altrettanto felici di passare il tempo a vagare per i sentieri di Westeros. «Westeros è diventato molto grande, e so che questo frustra alcuni dei miei fan, che preferirebbero che restassi in quella che ritengono sia la trama principale, ovvero i sette libri di Cronache del ghiaccio e del fuoco. Ma quasi dall’inizio ho visto altre possibilità, che lì dentro c’erano sepolte altre storie».
Sorride e ammette che è sempre stato così. Da bambino cominciava un’infinità di racconti che poi non finiva mai «perché avevo questa visione nella testa, ma quando cominciavo a metterla sulla carta, faticavo a trovare le parole e diventava banale e ordinaria e non era più divertente». Poi, ricorda che quando lavorava per la televisione e il cinema, a metà degli anni Ottanta, gli piacevano molto di più le sue «prime bozze, faticose, lunghe, disordinate» che il lavoro ridotto e perfezionista più accettabile per i dirigenti dello studio.
Come è noto, Cronache del ghiaccio e del fuoco fu scritto in seguito a queste esperienze. Una serie tentacolare «con una trama estremamente complicata piena di castelli giganteschi, di lupi e draghi spaventosi» che non potrebbe mai diventare un film. «Ma siccome la vita è piena di piccole ironie e di dèi maliziosi, fu proprio quest’opera impossibile da trasporre al cinema a diventare la serie televisiva più popolare al mondo».
Pensa che, man mano che la serie televisiva cresceva, il Westeros creato sullo schermo si fondeva con il suo? «Per lo spettatore medio, questo lo riconosco, Tyrion Lannister sarà sempre Peter Dinklage (l’attore che interpreta il personaggio in tv, ndt). Ma per me non è così. Ho iniziato a scrivere questi libri nel 1991 e quando è iniziata la serie frequentavo questi personaggi da vent’anni. Erano incisi nella mia mente».
Ciò che lo colpì, tuttavia, fu che chi aveva letto i libri manteneva i segreti della saga. «Il modo in cui nessuno rovinava l’episodio clou delle Nozze Rosse è uno dei grandi misteri della storia della tv perché c’erano letteralmente milioni di lettori dei miei libri che sapevano che cosa stava per succedere ma non raccontavano niente. Al contrario, facevano una cosa che non mi sarei aspettato: registravano lo shock e lo sgomento dei loro cari». Ride. «Improvvisamente, su internet, apparvero tanti video di persone che reagivano alle Nozze Rosse, girati dai loro parenti che volevano catturare il dolore e la sorpresa di mariti, mogli, fratelli...».
Gli piaceva molto interagire con i suoi fan. Quando avevo vent’anni passavo un sacco di tempo su uno dei principali siti dedicati ai libri, e una delle cose che più mi riempiva di gelosia, a me che lo leggevo lontano, in Inghilterra, erano i racconti mozzafiato dei Brotherhood Without Banners, un piccolo gruppo di fan devoti che andavano ai convegni, incontravano GRRM (come lo chiamavano loro), bevevano in sua compagnia e, se erano fortunati, lui li nominava cavalieri, magari imponendogli un grissino. C’è un po’ di malinconia quando parla di quel periodo. «La prima volta che andai a una festa dei Brotherhood Without Banners ci saranno state una decina di persone, e feci amicizia con alcuni di loro», dice. «Ogni volta che ci andavo ne incontravo di nuovi e passavo del tempo con loro e organizzavo dei quiz per loro. Era fantastico, ma, man mano che i libri diventavano più famosi e che la serie diventava un successo, le feste diventavano più grandi e più affollate». «Fanno ancora quelle feste e sono ancora grandi, e sono ancora amico di quelli che ho incontrato nel 2001 e nel 2002», dice con nostalgia, «ma non riesco più a conoscere persone nuove perché ce ne sono troppe. Sono sicuro che sono persone deliziose come le prime che ho conosciuto, ma non mi va di andare a una festa dove c’è una fila di persone che vogliono farsi un selfie con me, perché non è più divertente come ai vecchi tempi. È solo lavoro».
Rimpiange quei tempi? C’è una lunga pausa e poi dice sommessamente: «Sì. Onestamente, li rimpiango. Vede, non posso più andare in libreria, e questa era la cosa che più preferivo al mondo. Entrare e vagare da una pila di libri all’altra, prenderne uno, leggere un po’, uscire con un mucchio di libri che non conoscevo prima di entrare. Ora, quando vado in libreria, vengo riconosciuto in 10 minuti e si forma una folla intorno a me. Si guadagna molto, ma si perdono tante cose».
Questo desiderio di autodifesa lo ha portato ad allontanarsi da internet. «All’inizio, ero molto lusingato, leggevo i messaggi e pensavo: “Oh, che forza, sono tutti molto entusiasti”. Ma poi ho iniziato a pensare: “No, è meglio che mi tenga alla larga. Non mi piace il fatto che alcune persone abbiano capito bene certe cose, e che altre persone abbiano invece capito male, perché questo mi potrebbe influenzare”. Così mi sono tirato fuori e lascio che gli ammiratori abbiano le loro teorie, alcune delle quali sono giuste e altre sbagliate. Lo scopriranno quando avrò finito».
Detto questo, pensa che tutte le reazioni alla sua opera, anche quelle più rabbiose, debbano essere rispettate. «Tutte le reazioni emotive, sia ai libri che alla serie televisiva, mi fanno piacere, perché la fiction è questo: emozione. Se vuoi sviluppare un’argomentazione intellettuale o persuadere qualcuno, allora scrivi un saggio o un articolo. La fiction... deve darti l’impressione di vivere quello che leggi o che guardi. Se rimani distante, tanto che quando un personaggio muore non ti importa, non ti interessa, allora in parte l’autore ha fallito».