Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  agosto 22 Giovedì calendario

I ragazzi che fecero la Costituzione

WIMBLEDONX
Quando ho letto le prime trenta-quaranta pagine di questo libro di Giuseppe Filippetta, – L’estate che imparammo a sparare (Feltrinelli, pagg. 302, euro 22) – mi sono detto che sarei andato avanti fino alla fine come un treno. Si tratta, come risulta evidente anche dal titolo, della ricostruzione precisa e circostanziata, ampia ma anche facilmente interpretabile nei suoi significati più profondi, della lotta partigiana in Italia, dalle sue drammatiche e insieme esaltanti origini nel settembre 1943 alla sua conclusione, altrettanto esaltante, fra la primavera del 1945 e il lungo svolgimento del 1946.
Il libro è talmente ricco da esser quasi impossibile una sua sintesi, sia pure rapidamente argomentata e ragionata. Dirò perciò più semplicemente quali sono stati i suoi aspetti che mi hanno colpito di più. Il primo riguarda la presenza prioritaria nel racconto di figure di partigiani autentici, identificabili con nome e cognome, e storie proprie nell’ampio arco della resistenza nazionale, dalla Maiella in Abruzzo alle Alpi, di rango superiore e dirigenziale, oppure, forse anche più spesso, della massa dei militanti comuni, di ogni censo e condizione. Questo vuol dire che, con attitudine anche narrativa estremamente efficace, Filippetta coglie e valorizza nell’originaria scelta partigiana una sorta di rivendicazione, spontanea, della propria identità individuale popolare, contro l’affermazione bruta del diritto alla violenza e alla sopraffazione. Si vedano ad esempio, nelle pagine di esordio, le biografie di due partigiani di zone diversissime d’Italia, Vincenzo Cozzani diMontepulciano in Toscana, e Mario Grisendi di San Polo d’Enza nel Reggiano. Scrive Filippetta: “Nelle scelte di Cozzani e di Grisendi non c’è traccia di Stato e di regni, c’è la decisione sovrana di uomini che, venuto meno ogni ordine, scelgono loro quando, contro chi e per quale scopo fare la guerra e diventano partigiani con l’obiettivo di porre fine alla paura e all’ingiustizia del presente e di aprire a sè e agli altri il futuro”.
Quando viene meno l’ordine costituito, – quello bene o male rappresentato in Italia dalla tradizione monarchica, a un certo punto persino intrecciata con un disordine istituzionalizzato e brutale come quello del fascismo, – una quota consistente di giovani italiani non sta lì ad aspettare, inerme, subalterna e servile, che un’altra potenza esterna costruisca un nuovo ordine, cui assoggettarsi, ma prende le armi per costruirlo a modo proprio. Del resto, la ricostruzione storica e il discorso argomentativo di Fileppetta non si fermano qui: tutt’altro. Il segnale della traccia che l’autore segue è indicata con precisione dal sottotitolo dell’opera: “Storia partigiana della Costituzione”. E cioè: senza tradire il rispetto delle priorità rappresentate in questa storia dalle scelte di Cozzani e di Grusendi, Filippetta dimostra come, attraverso una scalarità di scelte e di tendenze, si arrivi in quei lunghi mesi di lotta a formulare i primi lineamenti del processo costituente, il voto per la Costituente, i tratti fondamentali della nostra Costituzione. Su questi punti Filippetta non potrebbe essere più chiaro: “La Costituzione repubblicana è il risultato di processi storici e giuridici che investono un arco di tempo più vasto di quello della Costituente e gli ordinamenti creati nel territorio dalle bande partigiane, le zone libere e le repubbliche sono tutti ordini giuridici instaurati in vista della creazione stabile e definitiva di un nuovo ordine costituzionale”. Altrove parla della “Costituzione dei fucili”.
"La Costituzione dei fucili"! Nella ricostruzione di Filippetta c’è indubbiamente la traccia di altri autorevoli interpreti di quel passato, da Dante Livio Bianco a Piero Calamandrei, da Guido Quazza a Giovanni De Luna; ma, se non erro il nostro autore porta fino alle ultime conseguenze il discorso. Un tratto significativo, – ma anche commovente – del suo rapporto con questa materia è consegnato alle ultime pagine del libro. Filippetta ricorda che già nel 1946 un maestro del diritto amministrativo, Giovanni Miele, aveva puntato il dito accusatore contro quei numerosi giuristi che tranquillamente si erano adattati al cambiamento dei regimi, dedicando il suo saggio Umanesimo giuridico a due suoi studenti dell’Università di Pisa, caduti nella Resistenza: Francesco Pinardi e Rurik Spolidoro. Sono gli stessi cui ora, – evidentemente con scelta non casuale, – Filippetta dedica il suo libro. Come mai? Anche qui Filippetta è di un’estrema chiarezza. Perché “nella lunga stagione del 1943-1947 il nuovo diritto repubblicano nasce innanzi tutto dalle vite costituenti dei tanti che, insieme a Rurik e Francesco, attraverso le bande partigiane affermano e instaurano con le loro scelte e le loro azioni... I principi e le regole dell’ordine democratico della libertà... Dimenticarlo significherebbe rinunciare al progetto di liberazione e di emancipazione umana che la Costituzione del 1947 ci ha affidato e privarci del nostro futuro di cittadini repubblicani”. Sono le ultime parole del libro. Talvolta, quando ci accade anche inconsapevolmente di misurare quelle scelte e quelle giovani vite di combattenti partigiani con il nostro presente di oggi, ci viene da piangere.