la Repubblica, 22 agosto 2019
Alibaba non sbarca a Hong Kong
Proteste, lacrimogeni e cori contro la Cina non sono il clima ideale per quotarsi a Hong Kong. Men che meno se l’azienda è un campione hi-tech cinese, Alibaba, e il fondatore, Jack Ma, un membro del Partito comunista. Maestro Jack ha pensato bene di evitare assist alla città ribelle, rinviando l’approdo alla Borsa locale del suo e-commerce. La decisione, secondo Reuters, sarebbe maturata una settimana fa, legata al caos che avvolge l’ex colonia inglese, con la Borsa ai minimi da 7 mesi. E l’effetto è di aggiungere pessimismo al pessimismo. Per il listino di Hong Kong, il collocamento di Alibaba (il secondo dopo New York) è l’evento dell’anno, tra i 10 e i 15 miliardi di dollari. Se ne riparlerà forse a ottobre, ammesso che la situazione sia tornata tranquilla. Così per non fare il gioco di Hong Kong, Alibaba finisce per favorire quello di Pechino. In questa battaglia la Cina sta usando le cattive per far sì che le aziende che operano nella metropoli restino fedeli alla sua linea, chiedano il ritorno all’ordine o addirittura condannino i “rivoltosi”. L’incidente di Versace, colpevole di aver avallato su una t-shirt l’indipendenza della città, è poca cosa, risolto con tante scuse e il macero delle magliette. Ben più grave è la tempesta che ha travolto Cathay Pacific, la compagnia aerea dell’ex colonia britannica, boicottata delle autorità comuniste dopo che diversi dipendenti hanno partecipato alle manifestazioni. Dietro alle dimissioni dell’amministratore delegato Rupert Hogg ci sarebbe la richiesta di Pechino di fornire una lista dei dipendenti sediziosi: lui ne avrebbe presentata una con un solo nome, il suo. Al timone ora c’è una persona gradita, Augustus Tang, che ha subito annunciato tolleranza zero per le «attività illegali». Un regolamento di conti clamoroso, visto che Cathay è una società privata di Hong Kong, mica un’azienda di Stato, e che l’azionista di maggioranza Swire ha sede legale a Londra.
Segno che neanche le molte imprese internazionali con uffici nella Perla d’Oriente possono ritenersi al sicuro da pressioni. Anche se, quando si tratta della Cina, molte sono già di loro portate a piegare la testa. Il guaio è che parecchi dipendenti locali sono giovani colletti bianchi ben istruiti, il prototipo del manifestante anti-Cina. La scorsa settimana un gruppo di lavoratori dei quattro giganti della revisione contabile, Kpmg, EY, Deloitte e PwC, ha acquistato in forma anonima una pagina sul quotidiano democratico Apple Daily, chiedendo il ritiro della legge sull’estradizione. Subito le aziende sono corse a dissociarsi. Evitando la rottura con Pechino, ma rischiandone una con Hong Kong.