la Repubblica, 21 agosto 2019
Il funerale di Felice Gimondi
PALADINA – Il rumore degli scarpini dei ciclisti, tlìc tlàc, perché sotto la suola hanno le tacchette, è un sottofondo dentro il silenzio mentre camminano verso la bara come in divisa, addosso le maglie sgargianti con i nomi dei paesi lombardi e molta acqua salata negli occhi. A centinaia sono venuti in pantaloncini per salutare Felice e la valle si riempie di campane. I ciclisti hanno i guanti con le dita di fuori e proprio quelle appoggiano sulla bara, sono carezze di bambini a un fiore. Ma lui, lui non è venuto. Lui non c’è.
Rotolano lente nella navata della chiesa le biglie con le facce dei campioni e dei gregari, ecco Saronni che porterà la cassa, ecco Moser che quella cassa battezza con l’acqua santa. C’è Marino Basso eterno cowboy, c’è il fido Parsani. C’è il Tista Baronchelli tutto pelato e Dancelli che vinse quella Sanremo ("Din don Dancelli”, titolò Tuttosport ). C’è Davide Cassani che ricorda quando, insieme a nonna, vide Felice vincere il mondiale ed eravamo tutti ragazzini, alé Gimondi ti gridava la gente se passavi in bici da corsa. Ma lui no, lui non è venuto, lui chissà dov’è.
Il prete ha una voce piccola che sembra sgretolarsi mentre gli esce dalla bocca e dice grazie Felice per le vittorie e grazie per le sconfitte, grazie per i boscaioli della Savoia e per i minatori in Belgio che aspettavano te, oggi abbiamo bisogno di fare memoria. Il prete si chiama Mansueto e parla di Felice, qui i nomi forse sono le cose stesse e sono i luoghi, il vicario del vescovo spiega infatti che Gimondi era come questa terra di persone e rocce, fabbriche e scoiattoli.
Viene la pelle d’oca mentre alziamo gli occhi dietro la siepe di folla, duemila persone almeno: possibile che lui non ci sia? Possibile che manchi proprio qui, adesso, l’altra metà di Gimondi?
Sulla bara hanno messo una foto in bianco e nero, sorridente, ed è lo stesso sguardo della figlia Norma che nell’identico modo piega la testa di lato. Quel vecchio là in fondo è Ercole Baldini la locomotiva umana, l’uomo che vinse insieme a Coppi quel Trofeo Baracchi e fu l’ultima volta di Fausto, e Felice portava alla fine quella stessa maglia biancoceleste del sogno. Lo reggono, lo fanno scivolare verso il campione. Per una volta, Felice, sei tu a stare fermo mentre la gente ti scorre di lato e tra la gente adesso mancano solo due occhi da indio, quegli occhi, tra questa gente manca soltanto lui.
Un cuscino di rose bianche sulla bara e tanti fiori rosa alle finestre, il bianco della maglia iridata, il rosa del Giro d’Italia. Un cartello, “Felice, salutaci Pantani” e di Pantani c’è qui mamma Tonina, lui e Felice si volevano bene. E poi gli applausi, certo, e le lacrime e i ricordi ma forse le lacrime addirittura di più. Dei corridori di oggi non è venuto nessuno, niente al confronto del fatto che non sia venuto lui.
Noi siamo gente semplice e costante, dice il prete, noi siamo gente fedele. I ciclisti portano via le loro biciclette, le ruote libere fanno un rumore di grilli ed è così che tutti salutano Felice Gimondi, è un canto di grilli a dirti addio. E in una casa di Bruxelles c’è un uomo per sempre infinitamente solo che non se l’è sentita di venire e così quell’addio glielo dirà da lontano, l’addio del cannibale, l’addio di chi vinceva sempre, per quello che alla fine vale, l’addio di Eddy Merckx.