la Repubblica, 21 agosto 2019
Le prossime tappe della Brexit
Un mese dopo essere diventato primo ministro, Boris Johnson scopre le carte della sua strategia per la Brexit e apparentemente non ha niente in mano. Il premier conservatore invia una lettera all’Unione Europea presentando la propria proposta per arrivare a un accordo. Bruxelles risponde che la proposta non contiene nulla di nuovo, in particolare sul “backstop”, la soluzione per tenere aperto il confine irlandese. La controrisposta di Downing Street è che in tal caso non ricomincerà nemmeno a trattare. A questo punto l’esito più probabile sembra l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue con il “no deal”, ovvero senza alcuna intesa: ricetta per caos e recessione, secondo il rapporto confidenziale dello stesso governo britannico trapelato nei giorni scorsi. Finirà così? La partita è alle prime mosse, perlomeno per Johnson, il nuovo giocatore appena sedutosi al tavolo. Una cosa è certa: il tempo stringe. Al 31 ottobre, la data fissata dalle due parti per la Brexit, mancano 72 giorni. Il dialogo, in realtà, continua: stamane Johnson vede Angela Merkel a Bruxelles, domani incontra Macron a Parigi, da venerdì partecipa al suo primo summit del G7, presenti i leader Ue. Ma il premier britannico è convinto che Bruxelles non farà concessioni fino a quando non capisce se il suo governo cade e chi eventualmente lo sostituisce.
Il 3 settembre la Camera dei Comuni torna a riunirsi dopo le vacanze (100 parlamentari volevano interromperle subito vista l’emergenza nazionale, ma Downing Street si oppone). Il primo tentativo sarà fare approvare una mozione bipartisan contraria al “no deal”. Il secondo (forse il 9 settembre) votare la sfiducia al governo Johnson: che ha solo un seggio in più dell’opposizione (320-319), quindi rischia grosso. Ma anche se sfiduciato, il premier non è costretto a dimettersi subito.
Dopo la sfiducia, l’opposizione ha 14 giorni per verificare se esiste una maggioranza alternativa. In teoria, sommando i voti di laburisti, lib-dem, scozzesi, gallesi, verdi e conservatori pro-Ue, ci sarebbe. Ma Jeremy Corbyn pretende per sé il posto di primo ministro, mentre lib-dem, Tories ribelli e parecchi dello stesso Labour non lo vogliono: troppo ambiguo sulla Brexit e troppo divisivo su tutto il resto, dall’economia alla sicurezza. Candidati alternativi: Kenneth Clarke, conservatore filoeuropeo, ex-ministro del Tesoro di Margaret Thatcher, “padre della camera” in quanto deputato con più lunga anzianità di servizio; e Harriet Harman, laburista moderata.
Un governo di unità nazionale dovrebbe negoziare una soft Brexit con la Ue, indire elezioni anticipate e poi anche un secondo referendum, in cui il popolo scelga tra l’eventuale nuovo accordo di uscita dalla Ue o rimanere in Europa. Ma Corbyn avverte già che il Labour resterebbe neutrale, permettendo a ognuno di votare come preferisce: anche per questo molti europeisti si oppongono a nominarlo premier. Se tuttavia non nasce un governo di unità nazionale, Johnson potrebbe restare in carica e indire le elezioni dopo il 31 ottobre, a Brexit realizzata con il “no deal”, pensando che sia l’unico modo per vincerle. Si profila così una crisi costituzionale senza precedenti fra un premier brexitiano ma sfiduciato e un parlamento diviso ma anti-Brexit. Osserva il Financial Times : «Ciò che decide il Parlamento è legge, sarà difficile per il governo ignorare la volontà dei Comuni». L’ultima parola sulla Brexit potrebbe toccare alla Corte Suprema.