la Repubblica, 21 agosto 2019
Hong Kong e il dramma di vivere in 9 metri quadri per più di mille euro al mese
«Non voglio vivere in una gabbia». È indignata Cheung. Piccola e energica, 22 anni e occhialoni rotondi, fra pochi mesi si laureerà in marketing e un’azienda le ha già promesso l’assunzione. Ha pensato che magari poteva lasciare casa dei genitori, trovare un posto suo, così ha visitato uno dei famigerati mini, o micro, o nano appartamenti di Hong Kong. La planimetria è rapida: «Tutto in una stanza di nove metri quadri, una piastra per cucinare, doccia e water, poltrona con tavolinetto e letto una piazza. L’affitto costa 10mila dollari di Hong Kong al mese (più di mille euro, ndr ), metà dello stipendio. Ho lasciato stare». Aggiungeteci pure che questo posto macchina ad uso abitazione sta dall’altra parte della baia, nei Nuovi Territori, mica qui tra i grattacieli di lusso dell’Isola, centro degli affari e del potere, dove la sera trader in camicia bianca sorseggiano drink con vista skyline e i figli dei tycoon fanno rimbombare i macchinoni. «Qui? – ride Cheung – qui possono comprare solo miliardari e stranieri. Sarà già tanto se un giorno avrò una casa mia».
Conviene ascoltare Cheung. Perché diversi commentatori sostengono che sia questo il vero combustibile dell’estate dello scontento di Hong Kong. La forza che da undici settimane spinge lei e i suoi coetanei a scendere per strada, marciando pacifici o ringhiando in faccia alla polizia. Quello che gridano, no alla legge sull’estradizione, no alla trasformazione di Hong Kong in un’altra città cinese, è la scintilla. Ma la benzina si starebbe accumulando da tempo, nera rassegnazione di chi non vede futuro, in una metropoli tra le più diseguali del mondo. Dove i giochi al rialzo di vecchi tycoon locali, nuovi tycoon cinesi e turbofinanza globale si sono mangiati il poco spazio strizzato tra mare e colline, togliendolo alla classe media. Un lavoro si trova, la disoccupazione è sotto al 3%, nessuno se ne preoccupa. Ma a che serve, se poi gran parte dello stipendio se ne va per un tetto e quattro mura? In dieci anni il prezzo medio delle case è salito di due volte e mezza, e i salari non lo hanno seguito. La paga tipica sta sui 2.200 euro, l’affitto di una stanza da letto in centro a 1.900. Per comprare poi ci vogliono venti anni di reddito familiare: con gli stessi soldi, ha calcolato qualcuno, si acquista un castello sulla Loira. «Non abbiamo spazio – dice Karl, 25 anni, neoavvocato in completo che ancora vive con mamma e papà – ma il governo permette comunque a pochissime società di controllare la terra».
In fondo anche la contestatissima Chief executive Carrie Lam sembra pensare che il problema stia lì. Mentre dribbla le richieste dei cittadini, promettendo un generico “dialogo”, lavora a nuovo piano di edilizia sociale, a costo di tagliare qualche buca al campo da golf. Forse ispirandosi a Singapore, altra città-formicaio, dove la densità è pure più alta ma il regime ha da sempre tra le priorità quella di garantire a tutti una casa, questione di stabilità. Eppure questo tentativo di ridare agli “hongkongers” un orizzonte sembra timido e tardivo. Se va bene, gli effetti si vedranno tra anni, nel frattempo l’economia della città sfiora la stagnazione e aggiunge incertezza all’incertezza. Dei pilastri che la reggono, spiega un imprenditore europeo di casa qui, tiene la finanza: Hong Kong è ancora un canale indispensabile per i capitali in entrata e in uscita dal Dragone. Ma il porto è in flessione per la concorrenza dei moli cinesi, e il commercio è in crisi perché i turisti mandarini spendono meno, e ora hanno paura del caos. Due giorni fa il 91enne Li Ka-shing, tycoon dei tycoon di Hong Kong, si è comprato una paginona sui giornali per chiedere di fermare la violenza «in nome dell’amore». Ma dietro l’amore c’è la sua fortuna da 40 miliardi di dollari, visto che i disordini cominciano a pesare anche sul mercato immobiliare. Un paradosso: per gli abitanti di Hong Kong, quelli normali, il calo del 10% è una boccata d’ossigeno. Lunedì alla vendita di appartamenti nell’ennesimo grattacielo alto e stretto c’era la fila, e tante grazie allo sconto proteste.
Ma se le ragioni profonde stanno davvero lì, perché giovani e meno giovani non lo gridano? Perché continuano a parlare di legge sull’estradizione e violenze della polizia? Forse ha ragione chi dice che il vero proletariato di Hong Kong, le cui nano case sono anche piene di infiltrazioni e scarafaggi, non si può concedere il lusso di protestare. Che a marciare e fare barricate sono i cuccioli di una classe media che ancora se la passa bene, e in caso di disastro ha pronto un biglietto sola andata per l’estero. Ma forse c’è qualcosa che tiene insieme tutto: «Si sa da sempre che i prezzi delle case sono un problema», dicono Tim e Lo, 22 anni, due amici che studiano Ingegneria e Medicina e indossano le mascherine del dissenso. «Già sappiamo che il governo non farà nulla per risolverlo». Forse è questa certezza di non essere ascoltati, che Carrie Lam non sia lì per loro, a cui i giovani pensano di aver trovato una risposta, l’ultima delle loro richieste: democrazia. «Finché non saremo noi a sceglierlo, chi ci governa non farà mai i nostri interessi».