la Repubblica, 21 agosto 2019
La disperazione di chi si tuffa nel vuoto. Dal Wtc alla Open Arms
La disperazione ha più fantasia che speranza. Abita nei vicoli ciechi, percorre strade senza uscita, si butta. Alla lettera. Ciò che non conosce o ammette è l’attesa, perché non vede seconde possibilità. I piani B sono per strateghi della vita, non per fuggitivi dalla morte. Il gesto dei profughi che si tuffano dalla barca ferma al largo della costa di Lampedusa è tanto inedito quanto inevitabile. Puoi scalpitare quando immagini un’altra vita, ma non puoi trattenerti quando la vedi e ti dicono che non puoi toccarla.
È un gesto infantile, come allungare la mano, ma infantile è un altro modo che abbiamo per dire naturale. Sulle rocce di Tangeri e di tutto il Marocco si vedono giovani che scrutano l’orizzonte, quando nelle giornate terse rivela la costa spagnola, che sia l’enclave di Ceuta o la costa di Tarifa, la tentazione di provarci, di andarci a nuoto, è più difficile da frenare di quanta sia la paura di farlo. E qualcuno non resiste.
Figurarsi se si tratta di uomini, donne che hanno già conosciuto la fame, attraversato il deserto, superato il sacrificio. Eppure da quest’altra riva li guardiamo con estraneità, qualcuno solleva il telefonino per riprenderli e diffonderli. Come se quel limite non ci appartenesse.
Richiamiamo allora un’altra immagine: gli uomini e le donne che si trovavano nelle stanze delle torri gemelle assediate dal fuoco l’11 settembre 2001. Alcuni di loro si tuffarono nel vuoto dalle finestre. Non avevano speranza davanti e soltanto disperazione alle spalle.
A qualcuno può sembrare un accostamento fuori luogo. Fuori luogo, fuori tempo e fuori dalla storia è evocare oggetti di lusso in quelle tasche sfondate e cuccagne all’approdo, che i più sanno essere impossibile. Non capiremo mai quel che accade davanti alle nostre coste se non avvicineremo quelle due immagini.