la Repubblica, 21 agosto 2019
Quando i vegani non baciano i carnivori
Non bacerei mai una bocca che ha mangiato animali fatti a pezzi». Lo ha detto una vegana di Auckland intervistata di recente nel corso di una ricerca sulla vita non violenta, condotta dall’università di Canterbury e dal Centre for Human-Animal Studies della Nuova Zelanda. La donna appartiene ad un’ala estrema del veganesimo, che rifiuta ogni forma di contatto sessuale con gli onnivori, per timore della contaminazione.
Li chiamano vegansexual. Per loro la promiscuità è un tabù insormontabile, che non ha solo ragioni morali, ma ha una giustificazione profondamente fisica, addirittura fisiologica. I non-vegani emanerebbero un cattivo odore, perché si rimpinzano di carcasse di animali assassinati. Tanto che una delle intervistate ha definito il corpo dei mangiatori di carne un cimitero di animali. La più categorica, al riguardo, è Ingrid Newkirk, fondatrice e presidente dell’organizzazione Peta (People for the Ethical Treatment of Animals). A suo dire, molti studi scientifici proverebbero inequivocabilmente che i vegani hanno un odore diverso, e più gradevole, rispetto ai carnivori, proprio a causa del loro regime vegetale. Ma questa profetessa del sesso green sostiene machiavellicamente che le sue adepte non devono rinchiudersi in un’inviolabile apartheid sessuale ma, all’opposto, essere disposte ad avere molti incontri ravvicinati con i bisteccari. Per convertirli alla giusta dieta, visto che il sex appeal vale più di mille sermoni. Come dire che il fine giustifica i mezzi. E Ingrid, machiavellica lo è fino al cinismo più impunito. Se una delle sue collaboratrici le annuncia di avere convinto il partner a farsi vegano, la guru la esorta a piantarlo senza rimorsi, perché è giunta l’ora di cercare una nuova pecorella smarrita da ricondurre all’ovile. Le vie dell’evangelizzazione sono decisamente infinite.
Ma c’è chi per spiegare la scelta vegansexual va molto al di là delle convinzioni etiche e delle preferenze erotiche. È il caso degli psicologi Annie Potts dell’università di Canterbury e Jovian Parry, professore a York, che in un articolo apparso qualche anno fa sulla rivista Feminism and Psychology, affermano che in molti vegani si attiverebbe un dispositivo psicosomatico di repulsione, una reazione di rigetto nei confronti degli onnivori. Qualcosa di simile all’intolleranza, se non ad una vera e propria allergia.
In realtà questa sovrapposizione tra sfera morale e sfera sessuale, che traduce le convinzioni etiche in reazioni fisiologiche, non è nuova nella storia. Sono esistiti dei vegansexual anche nell’antichità. Per esempio, l’asceta cristiano Eustazio, vissuto nel terzo secolo a Sebaste, l’odierna cittadina turca di Sivash, che disprezzava i carnivori e vietava ai suoi seguaci ogni contatto fisico con quelli che considerava esseri impuri. E non è finita. Perché dal corpo degli Eustaziani doveva essere cancellata ogni traccia di carnalità e di sessualità. Le donne si rasavano a zero e si vestivano da uomini. Non erano da meno gli Encratiti, una setta gnostica del secondo secolo, che arrivavano al punto di alterare le sacre scritture per ristilizzare la vita di Cristo e degli apostoli su un modello veggie.
Nel Diatessaron, una fusion neotestamentaria scritta da Taziano il Siro mescolando i quattro Vangeli canonici, viene cambiata la proverbiale dieta di San Giovanni Battista, fatta di miele e locuste, facendo sparire gli insetti per cancellare ogni traccia di cibo di origine animale. Ancor più estremi erano i Priscilliani, adepti della corrente ascetica fondata da Priscilliano di Avila nella Spagna del quarto secolo. Questi puritanissimi rinuncianti consideravano la carne un non-cibo immondo e diabolico. E arrivavano addirittura ad attribuire la creazione di cosciotti e bistecche non a Dio, bensì al demonio.
Sant’Agostino, nel suo libro Sulle eresie, imputa proprio al veganesimo spinto dei Priscilliani l’incremento delle liti familiari e delle separazioni causate dalla diversificazione delle abitudini alimentari tra i coniugi. Questa malsana dottrina, dice l’autore de La città di Dio, sottrae la moglie al marito e allontana il marito dalla moglie. Uno scenario degno di Hungry hearts, il premiatissimo film di Saverio Costanzo che racconta la fine tragica del matrimonio tra una vegana, interpretata da Alba Rohrwacher, e un onnivoro, che ha il volto di Adam Driver. Allora come adesso il cibo, tradendo la sua vocazione conviviale, può trasformarsi in un fattore di isolamento, emarginazione, tribalizzazione. Una sorta di autismo alimentare.
«Le labbra che hanno toccato alcol non tocchino mai le mie labbra» recita il cosiddetto Aforisma della temperanza, ripetuto come un mantra dai Battisti, il più numeroso gruppo evangelico degli Stati Uniti, che non a caso fu all’origine del proibizionismo.
C’è, insomma, un minimo comune denominatore che lega totem e tabù di ieri e di oggi. Ed è l’integralismo, alimentare e non solo. Quella sorta di puritanesimo intollerante che espelle dalla tavola i cibi, insieme alle persone che li mangiano. Ecco perché adesso sono sempre di più i coniugi separati che si affidano al giudice per decidere come nutrire i figli. Non litigano più per gli alimenti, ma per l’alimentazione. Decisamente Sant’Agostino è stato buon profeta. Visto che oggi salsicce e polpette diventano la continuazione della guerra coniugale con altri mezzi. Bombe caloriche per rappresaglie parentali.