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 2019  agosto 21 Mercoledì calendario

La requisitoria di Conte e le accuse a Salvini (2 pezzi)

Francesco Merlo per la Repubblica
Bastonato e frastornato, Matteo Salvini, che pure aveva salutato Giuseppe Conte stringendolo a sé, per un momento abbassa la testa fra le braccia sdraiate sul tavolo come a proteggerla da una lapidazione. Conte gli sta dando dell’irresponsabile, ma senza mai brillare di odio e di collera, solo ogni tanto fremendo, come percorso dalla corrente elettrica: dice “caro Matteo” e poi lo accusa di slealtà, mancanza di cultura istituzionale, opportunismo, autoritarismo, abuso di religione… Ed è la scena madre, “la morte nel pomeriggio”, direbbe Hemingway, del toro più infoiato della politica italiana di tutto il dopoguerra.
Infatti in sala stampa e nelle tribune nessuno più badava alla rumorosa e movimentata sarabanda che pure si svolgeva tutt’intorno a loro, con i senatori che inalberavano cartelli e i commessi che glieli strappavano dalle mani, con gli applausi, i buuh e gli insulti che nessuno più capiva non perché, dall’estrema destra all’estrema sinistra, tutti insultavano tutti e tutti insieme, ma perché nessuno più li sentiva: come in certi film, quando i suoni del mondo si sospendono, continuavano a vivere solo i due protagonisti, Salvini il selvaggio domato e il suo torero feroce e gentile, nell’ultimo duello, quello dove anche il vincitore muore insieme allo sconfitto. Perché senza Salvini non c’è il governo e dunque non c’è quel Conte che, per 14 mesi, più si sentiva fuori posto, più si incatenava al suo posto. Quel quasi premier, che esce di scena insieme al suo alleato-nemico, è finalmente diventato un premier intero, ma per un giorno soltanto, l’ultimo. Mai Conte era stato così freddo e così efficace stando accanto all’ex eroe ormai suonato. Difficile dire quale sarà il futuro di ciascuno di loro, ma certamente non li vedremo più insieme.
Dunque ieri sono morti entrambi perché è morta la politica del “famolo strano”, l’alleanza impossibile, quella che, nel Transatlantico del Senato, faceva sospirare Aldo Cioffi e Michele Geraci, i due sottosegretari di Di Maio, il primo grillino e il secondo leghista, che camminavano abbracciati: «Ci stanno separando e nessuno può capire quanto ci dispiace. La colpa è di questa schifezza dei partiti». E intanto il senatore Morra, presidente grillino della commissione Antimafia, si spingeva sino ad accusare Salvini di avere inviato messaggi in codice alla ‘ndragheta di Isola Capo Rizzuto. Accanto, il vecchio Scilipoti si inginocchiava davanti all’effigie di Cavour.
Come si vede, si può raccontare anche ridacchiando la giornata di ieri, che è stata, come al solito, commedia e neppure troppo raffinata. L’intera squadra dei grillini di governo, per esempio, è arrivata mezz’ora prima degli altri per prendere posto occupando tutti gli scranni dorati sotto la cattedra della presidente Casellati, per l’occasione vestita di raso giallo come Raffaella Carrà. Riservati al governo, quegli scranni sono solo venti. Guidati dal capoclasse Di Maio, i grillini di vaffa e di governo volevano costringere i leghisti a sedersi nei banchi ordinari, insieme agli altri senatori: pussa via.
Ma, sveltissimo, il leghista Fontana ha rubato la sedia a Bonisoli e poi Salvini, con i pugni sui fianchi, ha preteso il suo posto di vice, accanto a Conte. E ovviamente l’ha ottenuto. Quindi Salvini ha abbracciato Conte che gli ha lungamente sussurrato frasi all’orecchio e tra loro è stato un bel ridere, pochi minuti prima della lapidazione. Banchi rubate, barzellette sotto voce…: è roba da terza C, da Pierino e la supplente ? Sicuro, ma questa cifra di racconto per una volta non è sufficiente, non è adeguata alla giornata di ieri, sicuramente non al Conte che ha descritto come un’epopea il bullismo che subiva da Salvini, del quale era il garante e al tempo stesso la vittima. Cechov ha costruito i suoi racconti più belli su queste figure di funzionari e di professori di provincia che appena escono dall’anonimato rimangono schiacciati dal “fuori luogo”. Pensate infatti a Conte, alla sua politica come gentilezza e, per contrasto, alla forza delle accuse finali – come non condividerle? – con le quali ha condannato Salvini.
Eppure la politica come politesse è stata la sua unica trovata e cioè modestia e amabile rispetto, una riconoscenza leggera e fugace, una complicità ingenua, prepolitica e antipolitica, con la complessità sociale. Qualche volta questa gentilezza lo ha collocato nell’inattualità, nel limbo delle qualità senza spazio e senza tempo, dove anche il vaffa, che pure l’aveva prodotto, diventava il suo contrario. Era il Conte del bacia mano alla Merkel ma anche di quel fuorionda dove, sempre con la Merkel, parlava male sia di Di Maio e sia di Salvini promettendo: «Li controllo io, perché io quando dico basta, è basta».
Ma, come dicevamo, quel Conte “paglietta” che si diceva fiero «d’aver coagulato Salvini attorno a un tavolo per evitare iniziative che potrebbero soggettivizzare il conflitto» ieri è diventato leader per un giorno. Ha lavorato per tutta la notte lasciando platealmente accese le luci di Palazzo Chigi e ha scritto con il sapiente Casalino un j’accuse che è la sua dichiarazione d’indipendenza, la sua liberazione ma anche il suo canto del cigno.
«Troppo comodo accorgersene ora» gli ha detto Emma Bonino. E Renzi: «Come mai non se n’è accorto prima, presidente Conte?». E lo stesso Salvini: «Dunque non mi sopportavi, ma non me lo dicevi. E ora parli di me, come di me parla Saviano».
E invece c’è qualche cosa di drammatico nella figura di Conte, che va ben oltre il trasformismo italiano. E c’è qualcosa di misterioso in questo veloce precipitare di Salvini che sembrava avere in mano sia il Paese sia il governo dove gli alleati a cinque stelle erano ormai diventati suoi gregari. E invece in una settimana di cattivo umore, di spleen ferragostano, Salvini ha provocato la sua caduta. «Un colpo di sole» gli ha detto Renzi, che finalmente ieri, come nel film di Moretti, ha detto qualcosa di sinistra (sui migranti, sul garantismo, sulla recessione economica) e gli ha profetizzato la fine del mondo: «Per esperienza personale, ministro Salvini, la avverto: quegli stessi che lo osannavano, già oggi sono pronti a crocifiggerla, perché anche questa è l’Italia».
E difatti, più dei sondaggi che già lo danno in calo, è la giornata di ieri che ha mostrato la fragilità del successo di Salvini, il disperato niente di cui erano fatti la richiesta dei pieni poteri e quel ghigno e quel grugno che pure divennero l’illustrazione dell’epoca, il ceffo compiaciuto del razzismo creativo sulla copertina (ricordate?) di Time. E invece ieri, Salvini, in un finale sconnesso, dopo avere preso le botte di Conte, ha persino proposto di andare avanti così, come se non fosse successo niente: «Per fare insieme le riforme che avevamo in cantiere, il taglio del parlamentari per cominciare, e subito dopo la finanziaria». Ma Conte ha respinto anche quest’ultima “giravolta”, e nella replica ha rimproverato Salvini di avere addirittura ritirato la mozione di sfiducia perché non è capace di «prendersi la responsabilità dei propri comportamenti». Ma «se non hai tu il coraggio, il coraggio me lo prendo io, e vado dal presidente Mattarella».
Fuori, per Salvini niente bagno di folla e niente selfie, ma la claque grillina che gridava: «Conte, Conte, l’Italia è con Conte». E Giorgetti, l’infido e fidatissimo Giorgetti, ai grillini che gli hanno chiesto di mollare Salvini, ha mormorato: «In famiglia non ci si ama, ma ci si aiuta». Salvini se n’è andato denunciando l’inciucio, «un accordo con il Pd che evidentemente c’era già». Ma per la verità l’applauso della sinistra, il più intenso e il più corale, non è andato alle meritatissime bastonate che Conte ha dato a Salvini ma alla frase secca e precisa: «Il governo si arresta qui».
Se infine Renzi ha visto giusto su Salvini, su se stesso e sull’Italia, il capitano potrebbe non vincere le prossime corse e continuare a cadere e cadere. Qualche caporale insolente del suo partito si sta già manifestando, vedremo se, finiti gli osanna, ci saranno ad attenderlo le pernacchie.
***
Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera
Sembra una profferta di pace: Salvini si siede accanto al suo presidente del Consiglio, pronto ad accoglierne i rimproveri, e a ricucire l’alleanza; se necessario promuovendo Conte a commissario europeo e Di Maio a Palazzo Chigi. È la «sorpresa» annunciata da Calderoli poco prima davanti al (pessimo) caffè della buvette.

Conte all’attacco
Ma il premier, che è andato dal parrucchiere e offre ai riflettori una chioma particolarmente corvina, non raccoglie. Anzi, per mezz’ora abbandona l’involuto linguaggio da leguleio per andare giù piatto su Salvini. Lo tratta ora come un padre severo, ora come un professore indignato. Gli appoggia la mano sulla spalla mentre gli rinfaccia gli strafalcioni istituzionali e le scortesie umane, le assenze sgarbate, le convocazioni inopportune dei sindacati. Salvini a volte sogghigna come Franti, a volte appare seccato per l’umiliazione pubblica. Ma le accuse vere devono ancora arrivare. Riguardano la Russia. E il rosario. «Caro ministro, caro Matteo, se tu avessi accettato di venire qui al Senato per riferire sulla vicenda russa, avresti evitato al tuo presidente del Consiglio di presentarsi al tuo posto, rifiutandoti per giunta di condividere con lui le informazioni di cui sei in possesso…». L’attacco non potrebbe essere più duro: il premier rinfaccia al suo vice di tenere nascoste notizie che potrebbero nuocere al Paese «sul piano internazionale».

La seconda accusa è politicamente meno grave, ma scalda molto di più l’aula del Senato: «Chi ha compiti di responsabilità dovrebbe evitare, durante i comizi, di accostare agli slogan politici i simboli religiosi…». E qui Salvini dà mano al rosario con crocefisso. «Matteo questi comportamenti non hanno nulla a che fare con la libertà di coscienza religiosa, piuttosto sono episodi di incoscienza religiosa…». Ora Salvini il crocefisso lo bacia.

Al di là dei passaggi grotteschi, come quando si dice ispirato «dal nuovo umanesimo» e rivendica di aver istituto il Giorno delle Tradizioni folcloristiche e popolari, il discorso di Conte più che un annuncio di dimissioni pare l’investitura di un nuovo governo. Il premier sale al Quirinale per rimettere l’incarico nelle mani di Mattarella, con la chiara speranza di riaverlo. Ma sarà dura per il Pd sostenere il capo dell’ex squadra gialloverde. Renzi fa sapere che per lui non c’è problema; ma proprio per questo Zingaretti, che non può farsi dettare la linea su tutto, chiede discontinuità. Fuori dal Senato i sostenitori di Conte, tra cui i compaesani di Volturara Appula, si azzuffano con i leghisti. Il leggendario Scilipoti apre al governo istituzionale: «Dovrebbero essere tutti come me: responsabili». Morra dei 5 Stelle rivendica di essere presidente dell’Antimafia e di essere credente pure lui.

Salvini col fiatone
Mentre i 5 Stelle acclamano Conte in piedi e Di Maio abbronzatissimo lo bacia, Salvini si alza e va a parlare dai banchi della Lega. La Casellati, oggi in viola, lo chiama di nuovo presidente, ma dalle file del Pd la rimbrottano: «Non è presidente, è ministro!». Lui elenca tutte le offese ascoltate da Conte — «pericoloso, autoritario, preoccupante, irresponsabile, opportunista, inefficace, incosciente» —, lo paragona ai cari nemici Saviano e Renzi, ma in sostanza non chiude, anzi: «Volete tagliare i parlamentari? Ci siamo. Se poi qualcuno volesse aggiungerci una manovra economica coraggiosa per bloccare aumenti e ridurre le tasse a dieci milioni di italiani, ci siamo». Quanto alla religione, Salvini precisa che all’immacolato cuore di Maria ha chiesto aiuto non per sé, ma per il popolo italiano. «Sei il nuovo Padre Pio!» gli gridano da sinistra, «stanotte riceverai le stigmate!».

Il Truce fa la voce grossa, a tratti ha il fiatone, però quella che ai senatori pare difficoltà è semplicemente la sua oratoria: non sta parlando a loro, ma ai follower; è infatti in diretta facebook. «Stratosferico discorso del Capitano» twitta Luca Morisi, aizzatore della Bestia digitale. In attesa delle stigmate, il Capitano si proclama martire: «Volevate un bersaglio? Eccomi». Ora la Casellati lo chiama ministro, ma quelli del Pd non sono soddisfatti: «Non ministro, è un semplice senatore!». In realtà Salvini si guarda dal rinunciare al Viminale, sui social vola alto e cita Proust: «Molto spesso per riuscire a capire che siamo innamorati, forse anche per diventarlo, bisogna che arrivi il giorno della separazione». Come a dire ai 5 Stelle: siamo ancora in tempo a tornare insieme. La crisi mistica continua: «Voi citate Saviano, noi san Giovanni Paolo II!». Un senatore leghista, deferente, lo ascolta in piedi. Gli altri si alzano solo all’applauso finale.

La Russa commenta la performance annotando che Salvini è pessimo stratega ma grande comunicatore, secondo solo ad Almirante. È anche un po’ fascista? «Non esageriamo con i complimenti». «Conte l’Italia è al tuo fianco» dice lo striscione portato qui dal paese natale. Scilipoti invoca dieci, cento, mille Responsabili. Morra ribadisce: «Sono presidente dell’Antimafia, e so bene che in Calabria ostentare crocefisso e rosario è un segnale alla ‘ndrangheta!».

Renzi nuovo D’Alema
Renzi, che fino a questo momento ha scritto messaggini sul cellulare con cinque dita tipo concorso di dattilografia, si unisce volentieri alla gara di dottrina cattolica: «Come dice il Vangelo, ovviamente secondo Matteo…». Il Bomba è soddisfatto di essersi ripreso la scena, e un po’ anche il partito: «Ho portato il pallone fin qui, cos’altro volete da me?» gigioneggia dietro le quinte. Il punto è che ormai quasi nessuno si fida di lui. Il timore di Zingaretti e pure dei 5 Stelle è che, lasciato fuori dal governo, Renzi possa farlo cadere nel momento più favorevole alle sue ambizioni. «È il nuovo D’Alema» dice di lui una senatrice del Partito democratico: tattico impeccabile, dal ribaltone del 1995 alla presa del potere del 1998; poi però arrivano quella grande seccatura che sono le elezioni.

Stavolta il voto sembra poter attendere. Dal Quirinale chiariscono che non può essere il presidente a risolvere la crisi, che il suo compito è ascoltare quello che gli diranno i partiti. Ma la convinzione generale auscultata al Senato è che la distanza antropologica tra il cattolico democratico Mattarella e il deejay Matteo del Papeete sia tale che, se potrà dare una spintarella a Salvini portato dai 5 Stelle sull’orlo del burrone, il presidente non potrà e forse non vorrà esimersi.

Gara di catechismo
L’intesa politica tra grillini e dem è lontana e difficile. Più semplice, sussurra Renzi, sarebbe mettere su un bel governo istituzionale con figure gradite a entrambi i fronti, tipo Cantone, Gratteri, Gabrielli, accanto a politici non troppo usurati. Zingaretti non potrebbe certo negare la fiducia; Grillo neppure; e una volta che la Camera avrà votato il taglio dei parlamentari, il nuovo esecutivo avrebbe almeno un anno davanti.

Giorgetti fa ascoltare alla portavoce leghista Iva Garibaldi una canzone di Sergio Endrigo nei suoi momenti più malinconici — «Chissà se finirà/ se un nuovo sogno la mia mano prenderà…» — e mostra di non credere troppo al voto anticipato: «Alla fine prevarrà lo spirito di conservazione della specie». È il motto dei peones, i parlamentari di seconda e terza schiera: «Quando ci ricapita?». Eppure le elezioni non sono affatto escluse, e i contorni della nuova stagione restano oscuri.

C’è un nome cui sarebbe ancora più difficile dire di no. Ma nessuno osa citare apertamente Draghi. Molto attivo invece Scilipoti: «Dovrebbero fare tutti come me, anteporre l’interesse pubblico a quello personale…». Morra, che in effetti è il presidente della Commissione antimafia, prega per Salvini parafrasando Gesù in croce: «Padre perdonalo perché non sapeva cosa stava facendo». Il gesuita Spadaro, consigliere del Papa, rilancia le parole di Conte sul rosario. Si vede Ghedini, come solo nelle grandi occasioni: Forza Italia è divisa tra chi vorrebbe seguire Salvini e chi è tentato da Renzi. Verdini, di passaggio: «Matteo non è ancora mio genero, e poi mi ascoltavano di più Berlusconi e l’altro Matteo…». Arriva pure Rocco Casalino, freschissimo: «Conte è l’uomo del giorno. Mi sa che lo rivedremo presto». A Palazzo Chigi o a Bruxelles? I compaesani apuli srotolano l’ultimo striscione: «Presidente l’Italia ti ama». Salvini avvisa: ci rivedremo nelle piazze.