21 agosto 2019
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Biografia di Peppino di Capri
Peppino di Capri (Giuseppe Faiella), nato a Capri (Napoli) il 27 luglio 1939 (80 anni). Cantante. Vincitore, tra l’altro, di due Festival di Sanremo, con Un grande amore e niente più (1973) e Non lo faccio più (1976). Oltre 30 milioni di copie vendute nel mondo. «Ho sempre cantato l’amore, anche se, in fondo, in me pulsa ancora un cuore rocchettaro» • Figlio e nipote di musicisti. «Ancora non ero nato, e già suonavo il piano nella pancia di mia madre. Il primo giocattolo è stato un pianoforte. […] Posso dire che fin da giovane sono stato rapito dalla melodia». «A quattro anni aveva già la musica nel sangue, bambino prodigio. Suonava al pianoforte ogni motivetto. Giuseppe Faiella dimostrò subito di avere il dono dell’orecchio assoluto. Di lì a poco, la prima esibizione. Nel 1943 lo zio lavorava al Morgano Tiberio, l’hotel dove alloggiavano il generale americano Clark e le truppe statunitensi, e propose di far esibire il suo nipotino per le truppe. In seguito, Clark chiese di poter ascoltare ogni week end la musica del giovanissimo Peppino di Capri, che andava in albergo accompagnato da sua sorella e da una cugina» (Davide Esposito). «Andavo a orecchio, cercavo di riprodurre i ritmi americani che sentivo nell’aria». «Sul piano c’era un piatto d’argento: a fine serata era pieno di Am-lire. A casa, svuotavo le tasche e crollavo». «Di ritorno dalla guerra, il padre, notando la predisposizione naturale del figlio, gli disegnò un pentagramma su di un foglio e gli diede le prime basi sul solfeggio. Di lì a poco, Peppino iniziò a prendere lezioni di piano dalla sua prima insegnante, una severa maestra tedesca, moglie del celebre violinista caprese Paolo Falco. Aveva sei anni» (Esposito). «Pochi anni dopo, avevo già il mio gruppo: lavoravamo al Number Two, un locale di Capri che esiste ancora. Quando l’insegnante tedesca lo scoprì, interruppe le lezioni». «Mi cacciò letteralmente dal suo studio. […] Lei si era insospettita, perché vedeva che a ogni lezione il mio polso non era fluido e leggero come lei voleva. Poi, una notte, suo marito mi incontrò in un stradina di Capri e mi chiese che cosa stessi facendo. Risposi che aspettavo mio padre: invece tornavo da un night dove suonavo. Sia chiaro, la musica classica mi piaceva, la apprezzavo, ma dentro di me covavo altro» (a Roberto Zichittella). «Pazienza: c’era Mario Perrone, pianista ufficiale del Number Two, grande maestro di piano bar». «Quando mia madre, io avrò avuto dieci anni, si mise al piano a suonare antiche melodie napoletane, tra l’altro sui tasti neri, per me fu quasi un trauma. Forse per non condizionare il mio percorso aveva tenuto segreta questa sua virtù» (a Gigi Marzullo). «L’adolescenza di Giuseppe Faiella trascorse tra le prime serate nei locali capresi e le prime formazioni. Nel 1953 nacque il Duo Caprese, insieme allo storico batterista Ettore “Bebè” Falconieri. Successivamente, i Capri Boys con Mario Cenci alla chitarra, Gabriele Varano al sax e Pino Amenta al basso. […] In quegli anni Peppino di Capri suonava il pianoforte, ma non cantava ancora. Non sapeva ancora di possedere quell’inconfondibile timbro di voce che ne avrebbe fatto un asso del microfono. “Fu in una delle serate capresi che cantai per la prima volta. Il vocalist era dovuto andar via per un lutto, e la serata era a rischio. Dovevamo esibirci al Gatto Bianco, un ritrovo storico a quei tempi. Vinco una naturale timidezza e canto. Un successo. Non me l’aspettavo proprio. Da quella volta sono diventato cantante”» (Esposito). «“Ai tempi di La dolce vita ero nei locali, quando il film veniva girato. La mia prima donna recitava in quel film, Nico dei Velvet Underground. Avevo 16 anni e suonavo a Capri: lei il giorno dopo mandava fiori a casa mia. E mia madre: “Ma che vuole questa?”. I miei idoli sono stati Robert De Niro ed Eduardo De Filippo. Eduardo, l’ho incontrato all’Hotel De Londres. Leggeva il giornale in poltrona. Mi fa: “Guaglio’, aràpete nu ristorante”. Resto interdetto: non gli piace come canto? Dopo un po’, aggiunge: “La gente dovrà mangiare sempre”. Sei anni dopo, stessa scena: senza alzare lo sguardo, mi dice: “Te sei arapùto ’o ristorante?”» (ad Arianna Finos). «Da ragazzo amavo ascoltare le radio di tutto il mondo. Ero un vero appassionato. Registravo quello che andava in onda e, quando la sera tornavo dal night, riascoltavo le novità» (a Carlo Antini). «Fu a Ischia, nel 1958, al night ’O Rangio Fellone (“il granchio fellone”), che diventammo l’attrazione dell’isola. Ischia era molto mondana: ci venivano in vacanza attori, registi, gente dello spettacolo, che impazzivano per noi e per Baby Gate, le novità di quell’estate. Che stagione! Mina, alias Baby Gate, cantava al Moresco: chi finiva prima andava a sentire l’altro. Poi, tutti insieme con i rispettivi musicisti, via a svegliare i ristoratori del porto per un piatto di spaghetti. […] Una sera arrivò una telefonata dalla Carish che ci convocava a Milano per un disco di prova. Era il 1958. “Mettete su una decina di pezzi-campione”, ci dissero. E noi incidemmo i nostri cavalli di battaglia: soprattutto vecchie canzoni napoletane che avevo ascoltato da mia madre e rielaborato con sonorità più moderne, rockeggianti, terzinate» (a Valeria Gandus). «Il compenso sarebbe stato di cinquantamila lire a brano, per un totale di dieci brani. Peppino e la band raggiunsero Milano a bordo di una Fiat 1100 beige un po’ sgangherata. Fecero i provini e tornarono a Capri, dove Peppino fu raggiunto da una telefonata. Da Milano gli chiesero quale fosse il nome del cantante dei provini registrati. Peppino, emozionato, non sapeva che cosa rispondere. Il colpo di genio l’ebbe Cenci, il chitarrista della band, che gli chiese: “Scusa, tu come ti chiami?”. “Peppino”. “Di dove sei?”. “Di Capri”. “Perfetto. Peppino di Capri sarà il tuo nome”. E così “Peppino di Capri e i suoi Rockers” fu l’etichetta della band. Peppino aveva vent’anni. L’album delle incisioni milanesi arriva nei negozi mentre Peppino di Capri e i suoi Rockers infiammano le notti romane. “Suonavo al Kit Kat e andavo sempre in un negozio di dischi all’angolo. Dell’album, nessuna traccia: pensai che non fosse ancora uscito. Quando ne chiesi notizia alla commessa del negozio, lei mi rispose che l’album era uscito ed era andato esaurito in pochi giorni. La commessa mi disse che non s’era mai registrata una simile vendita da tutto esaurito per un gruppo al debutto”. Inizia l’ascesa verso il successo. E Capri lo incorona alla sua maniera. “La banda di Scialapopolo venne a prendermi al porto”, ricorda Peppino» (Esposito). «Escono contemporaneamente 45, 33 e perfino tre 78 giri dal sound per l’epoca innovativo. Titoli come Let Me Cry, rifacimento in inglese di Nun parlà!, Nun è peccato di Carlo Alberto Rossi con arrangiamento terzinato, e soprattutto la versione di Malatia di Armando Romeo per metà in napoletano e per metà in inglese. Nel 1959 è la volta di una versione a terzine della gloriosa Voce ’e notte: il pubblico più attempato grida allo scandalo, ma Di Capri è ormai in cima alle classifiche, così come con un altro classico napoletano, I’ te vurria vasà, qualche mese dopo. Il cantante pianista dalla voce nasale intanto prende a prestito successi statunitensi da lanciare in Italia: a volte li esegue nella nostra lingua (Nessuno al mondo, ossia No Arms Can Ever Hold You di Pat Boone, successo del 1960), altre volte li propone con testo originale, rielaborando l’arrangiamento, come con Let’s Twist Again, nel 1961. Il trionfo di questo pezzo fa di Peppino di Capri il divulgatore italiano per eccellenza del nuovo ballo, sicché il 1962 è praticamente dominato dai suoi successi a tempo di twist (la notissima St. Tropez Twist, ma anche Daniela e Speedy Gonzales)» (Cesare Borrometi). «Tutto nacque da una telefonata. “Mi chiamò Gerry Bruno dei Brutos dalla Francia. Mi disse di ascoltare questo nuovo genere importato dall’America, il twist. In Francia stava riscuotendo un grande successo. Gerry mi manda qualche spartito: ne sono entusiasta”. L’estro e l’ugola di Peppino di Capri lanciano il twist in Italia. Diventa il re di questo nuovo genere musicale. La canzone Let’s Twist Again resta in vetta alle classifiche per due settimane e viene ripresa come colonna sonora nel film Twist, lolite e vitelloni, dove Peppino compare anche come attore. È il periodo cinematografico dell’artista caprese. Nel 1963 recita nel film Disco rosso ai sogni, girato da Piero Pierotti. Alla pellicola partecipano anche i componenti del suo gruppo. […] Nello stesso anno Peppino vince la seconda edizione del Cantagiro con Non ti credo e incide la canzone Roberta, dedicata alla prima moglie, sbancando anche all’estero. Il 1965 è l’anno dei Beatles che arrivano in Italia. “Fui chiamato ad aprire i loro concerti. Finalmente si sentivano note libere. Fu una bella esperienza. Con i miei Rockers facemmo da spalla a quattro concerti in tre giorni. Uno a Milano, uno a Genova e due a Roma”» (Esposito). «Guardavo i loro amplificatori giganti e pensavo che fossero armadi. Hanno smosso il mercato, ma noi abbiamo esagerato: dal giorno dopo, tutti con le chitarre e i capelli lunghi. […] Non mi chiamava più nessuno. Ci facemmo prestare tre chitarre elettriche. Mi ritrovai sul palco a cantare She Loves You. Poi la sera mi guardavo allo specchio: ma che stai facendo?». «Arrivarono gli anni bui: la fine delle nozze con Roberta e la fine del successo. Lei si ritrovò con 160 milioni di debiti di gioco. “Eh, anche qualche cosina di più. Quando Roberta mi lasciò, mi crollò il mondo addosso e iniziò un periodo di crisi professionale: i fan mi voltarono le spalle. La mia musica sottovoce sembrava non piacere più”» (Cristina Rogledi). «“Mi sono perso, e fino al 1970 ho pubblicato una sola canzone (È sera)”. Si è eclissato… “Ho iniziato a dipingere, regalavo i quadri agli amici, al massimo strimpellavo per me, ma non capivo quale strada percorrere. Periodo duro, fino a quando non ho visto in televisione Georges Moustaki cantare Lo straniero: trasmetteva serenità. A quel punto ho ‘appeso’ i pennelli”. E… “Ho riallacciato i contatti, ho parlato con un impresario romano che non mi chiamava più e ho scoperto che un collega-amico non era poi così amico”. Cosa le aveva combinato? “Noi due avevamo stipulato un patto: ‘Meno di questa cifra, non suoniamo’. Bene. Peccato che sotto banco accettava cachet molto inferiori: così mi aveva escluso. Calai anche io, e di brutto”» (Alessandro Ferrucci). «Per i debiti mi aiutarono i parenti. E con gli ultimi soldi, circa 200 mila lire, fondai la mia casa discografica, la Splash. Decisi di riprovare, col mio stile. Vinsi il Festival di Napoli del ’70 con il brano Me chiamme ammore, e tutto ripartì» (Rogledi). «A poco a poco torna ad affermarsi sul mercato, a partire da Amare di meno, sigla del seguitissimo Rischiatutto, edizione 1971-’72. Nel 1973 arriva la vittoria a Sanremo con Un grande amore e niente più, dall’efficace testo di Franco Califano, e quindi Champagne, che s’impone con una forza tale da diventare un po’ la sigla incubo di Faiella» (Borrometi). «“In realtà, non era stata scritta per me; non si chiamava neppure così, ma Coppa di champagne, e all’inizio non fu un successo. […] L’ha scritta un gruppo di autori che avevano già lavorato per me: Mimmo di Francia, Salvatore di Pasquale, che firmava come Depsa, Sergio Iodice. Vennero nel mio ufficio a Napoli per chiedermi consiglio. Il primo fu di cambiare il titolo: meglio Champagne e basta”. E fecero bene ad accoglierlo. “Ma la canzone volevano farla cantare ad Aznavour, perché era francese. Mi chiesero se lo conoscevo. In alternativa, l’avrebbero mandata a Modugno. Il pezzo, però, mi piaceva: lo trovavo adatto per portarlo alla finale di Canzonissima, che era vicina. ‘Fatemela cantare’, chiesi”. Ne furono contenti. “No: erano convinti che non fosse adatta al mio stile. ‘Ci vuole uno chansonnier: tu queste cose non le hai mai fatte’, dicevano. Ottenni, comunque, un provino. Venne benissimo, e si convinsero. Così Champagne andò alla finale di Canzonissima”. Ma non vinse. “Finii quinto su nove concorrenti. Dietro Gigliola Cinquetti, i Vianella e Al Bano. Non fu una grande edizione”. E il successo come arrivò? “Per caso. Dopo sei mesi ci accorgemmo che il pezzo andava fortissimo alla Siae: era un hit dei piano bar, la suonavano dappertutto ed era diventato un inno nazionale di matrimoni e battesimi”» (Marco Molendini). «A 34 anni Peppino di Capri vive una seconda giovinezza artistica. Nel 1976 vince ancora Sanremo con Non lo faccio più, senza però grandi riscontri di vendite, che d’altro canto non si verificheranno più» (Borrometi). «I gusti musicali all’epoca stavano cambiando. I giovani cominciavano a preferire altri generi: forse furono colpiti dal testo. Non credevo di arrivare primo. Ero dietro le quinte, pronto ad andar via. Avevo appena indossato l’impermeabile quando sentii “apri, apri”, invece stavano urlando “Di Capri, Di Capri”. Mi strapparono l’impermeabile di dosso e fui catapultato sul palco. Fu una grande emozione: quella vittoria mi diede una grande carica». «Continua […] con rinnovato attivismo: tournée in Italia e all’estero, album di canzoni nuove con arrangiamenti che cercano di stare al passo con i tempi, ma soprattutto costanti presenze a Sanremo, al punto da battere il record delle partecipazioni (15 in tutto). A volte con compagni d’eccezione (Pietra Montecorvino nel ’92 e Luigi Proietti e Stefano Palatresi nel ’95), a volte con pezzi di una certa validità quali Il sognatore (1987), Pioverà (Habibi ané) (2001) e La panchina (2005)» (Borrometi). Del 2014 è l’ultimo album, L’acchiappasogni. «“Mi sono ispirato al dreamcatcher, ‘l’acchiappasogni’ appunto, vale a dire quell’oggetto che gli indiani d’America appendono fuori dalle loro tende quando nasce un bambino, allo scopo di bloccare i brutti sogni e far filtrare solo quelli buoni per il neonato. In questo disco volevo far passare le canzoni buone, quelle giuste, insomma i classici ‘peppiniani’”. Ci spiega quali sono le canzoni giuste secondo lei? “Quella adatte a me, che non mi buttano fuori dal mio stile e dal mio genere. Non devo mai cadere in questa tentazione, con il rischio di fare esperimenti azzardati”» (Zichittella). «Il disco è anche un omaggio alla sua isola. Capri Song è stata scritta da Mogol. “La musica fu un’idea di Paolo Fiorillo. Ideò il motivo iniziale: io lo completai. Con Mogol ci incontrammo d’estate a Roma, e il testo si accordava perfettamente alla musica: fu qualcosa di incredibile. Le nostre tre anime erano perfettamente sincronizzate. Solo la musica può fare queste magie”» (Esposito). Il 2015 gli riservò invece un curioso diversivo: «76 anni di età e 57 di carriera, il cantante si lancia come attore nella commedia Natale col boss. […] “Lillo e Greg hanno avuto l’idea dell’errore di due chirurghi che, invece di rifare la faccia al boss come quella di Leonardo DiCaprio, lo trasformano in Peppino di Capri. Aurelio De Laurentiis un giorno mi convoca all’Hotel Vesuvio: pensavo volesse qualche consiglio sui giocatori del Napoli e invece mi propone il film. ‘Dai, firmiamo’. Io: ‘Ma me lo fai leggere, il contratto?’. ‘Ma dai, tra amici ci mettiamo a perdere tempo? C’è la partita tra mezzora’”. Com’è andata sul set? “I colleghi mi hanno gasato e mi sono lasciato andare. In una scena in macchina io e il boss con la mia faccia ci incontriamo: recitare tutte e due le parti non è mica facile. Perché il boss ci prende gusto, e vuole diventare davvero Peppino di Capri. Per recitarlo ho tirato fuori la voce da boss che uso nelle barzellette”. […] Chi glielo ha fatto fare? “Di certo non i soldi. Conoscete Aurelio: tiene il braccino corto. ‘Chiedi cifre che neanche a Hollywood…’, ‘Aurelio, dammi quello che vuoi’”. Ha partecipato a molti film. “Solo come cantante. Usavano i miei brani: nel Sorpasso ce ne sono sette. Da attore ho recitato con Arena in Maurizio, Peppino e le indossatrici. Un filmaccio che passano i canali privati”» (Finos). Se il 2018 fu l’anno delle grandi celebrazioni per i suoi sessant’anni di carriera, con il duplice concerto tenuto in primavera al Teatro San Carlo di Napoli, nel febbraio 2019 Di Capri manifestò invece grande delusione, quando, nonostante le sue reiterate richieste («Tornerei a Sanremo solo come ospite, con un premio alla carriera. Dopo 60 anni di carriera penso di meritarmelo») e il pubblico appello sottoscritto da numerosi personaggi (tra gli altri, Renzo Arbore, Maurizio Costanzo e Carlo Verdone), per il Premio alla carriera del Festival di Sanremo gli fu preferito Pino Daniele. «È tutto ben fatto. Ma avrebbero potuto dare il Premio alla memoria a Pino e quello alla carriera a Peppino. Senza nulla togliere alla grandezza di Pino Daniele, se ben mi ricordo era stato a Sanremo solo come ospite, non in gara. Io ci sono andato ben 15 volte: forse il premio alla carriera lo meritavo. Mi ero preparato psicologicamente al premio, ma va bene così». In base a quanto dichiarato senza grande convinzione nel 2018, entro la fine del 2019 dovrebbe ritirarsi dalle scene. «“Non pensavo di arrivare a quest’età. Mi dicevo: ‘Prima o poi finirà’. E invece la mia timbrica è rimasta fedele, e mi sono convinto ad andare avanti. Mi sento in perfetta forma, ma […] vorrei dare l’addio alle scene nel 2019”. Non sentirà la mancanza della musica? “Ci sono colleghi che continuano a cantare anche dopo aver compiuto 80 anni. Chiaramente, finché il pubblico ti vuole si va avanti. Ma io vorrei garantire sempre il massimo della professionalità. D’altra parte, mi rendo conto che ci sono ancora tanti ragazzi interessati a quello che faccio. Me ne sono accorto quando è uscito al cinema Natale col boss. I bambini e i genitori mi fermavano per strada”. Sta pensando a come celebrare il suo addio alle scene? “Sarebbe bello farlo con una serata tv in onda un sabato sera d’autunno. E poi magari potrebbe essere anche mandata in replica il 31 dicembre. Comunque, mai dire mai: magari poi ci ripenso e continuo a cantare”» (Antini) • «Non so da dove mi sia uscita questa voce nasale, ma credo che cominciai per imitazione: il mio idolo era Don Marino Barreto Jr., che cantava un po’ così, anche se molto meglio di me» • Un figlio, Igor (1970), dalla prima moglie, la modella Roberta Stoppa; altri due figli, Edoardo (1981) e Dario (1986), dalla seconda moglie, la biologa Giuliana Gagliardi (peraltro cognata di Mimmo di Francia, coautore di Champagne), con cui è stato sposato dal 1978 fino alla morte di lei, occorsa per cancro il 4 luglio 2019, a soli 68 anni. Dei tre figli, uno, Dario, fa l’attore (col nome d’arte di Dario Castiglio), mentre un altro, Edoardo, «“è musicista, gira il mondo con le cover degli U2: non sa quanto mi costa di attrezzatura. Tutto quello che ha The Edge lo deve avere anche lui. Ma è bravo”. Il terzo? “Vaga, da un baretto a Palma di Maiorca ai led di una fabbrica in Montenegro. Igor, il figlio di Roberta, la mia prima moglie, ogni tanto mi dice ‘Ho avuto un’idea’, e io tremo. La mamma era così: mi faceva cambiare continuamente i mobili. E lui è uguale a sua madre”» (Finos) • «Lei ripete che è stato “un latin lover sfigato” perché ha sempre pensato solo al lavoro. Ma è difficile crederle. “Ha ragione: era un vezzo dichiararmi ‘sfigato’. Ho lavorato moltissimo, ma non sono mai stato indifferente al fremito di uno sguardo particolare. Essere desiderato ti dà la carica. Non sono stato un santo. Ma ci tengo molto, alla mia famiglia. Anche perché senza mia moglie Giuliana non sarei quello che sono”» (Rogledi) • «Lei è andato a omaggiare Salvini quando è “calato” su Napoli… “Ed è scoppiato il bordello: mica avevo pensato alle conseguenze, altrimenti col cavolo. Però aveva parlato bene di me: per questo sono andato a portargli i miei ultimi due dischi. Appena presi, mi dice: ‘Le devo qualcosa?’”. Le ha indirettamente dato del napoletano-piazzista. “Dice? Non credo… anzi, spero di no”» (Ferrucci) • Grande passione per gli scampi alla brace («il mio piatto preferito»), ma pure per le merendine («ne mangio in quantità industriali: una media di sei al giorno!») • «Mi rifiuto di fare l’Al Bano della situazione, che vive per apparire. Gli ho detto: “Non ti tingere più i capelli, fai schifo”. E lui: “Sei pazzo: io giro per i Paesi in cui devi avere i capelli corvini”» • «Anche lei ha lanciato la sua moda: la giacca di lamé. “Vivevo a Capri, coccolato da grandi stilisti. Mi sono messo la giacca di lamé: la gente impazzì. Mi feci arrivare dalla Cina una stoffa con alberi e uccelli per una giacca su misura: me la rubarono a Maranello a fine serata. La poggio su una sedia, firmo un autografo, mi giro e non c’è più. Ogni tanto la rivedo su qualche foto. Vorrei mettere un annuncio su internet…”» (Finos) • «A ispirare i suoi testi è sempre Capri. “Compongo nella mia casa sul Castiglione, di fronte ho il golfo di Napoli. Anche la curva di Casa Mia a Marina Piccola è fonte di ispirazione, mi ha sempre suscitato forti emozioni e guizzi istintivi per le mie canzoni. Amo osservare i Faraglioni in silhouette, accarezzati dai raggi del sole”. I ricordi tornano al periodo di gioventù. L’infanzia trascorsa sull’isola frequentando le scuole a Santa Teresa e poi alla Certosa. “D’inverno trascorrevo il tempo a studiare musica e d’estate uscivo con le comitive di Napoli. Ero curioso di apprendere sempre cose nuove: il modo di vivere cittadino in qualche modo mi aiutava a crescere. […] Da ragazzo, quando scendevo le scale della piazzetta, con un solo sguardo abbracciavo il mondo intero”. Sotto gli ombrelloni coloratissimi dei bar c’erano scrittori, artisti, attori di tutto il mondo. “Ai miei occhi ancora giovani, tutte quelle persone, ognuna portatrice della propria cultura, sembravano delle comparse, e Capri un film. Vivere quell’epoca è stata una grande fortuna”» (Esposito). «Capri è la mia fonte di energia, di relax meritato, è mia moglie, i miei figli, la natura, l’infanzia e i suoi ricordi, che ti raggiungono sempre e dei quali proprio non posso privarmi». «Lei ha contribuito a rendere l’isola famosa. “Mi fa piacere: qualcuno mi ha accusato di sfruttare il nome, quando credo di difenderlo e onorarlo. Eppure, all’inizio della carriera, il mio batterista non voleva dicessi le nostre origini, ‘altrimenti ci trattano come isolani’. Per un periodo gli ho dato retta; un periodo breve. Poi c’è la parentesi St. Tropez”. Uno dei pezzi più celebri. “Qualche anno fa il sindaco mi ha convocato in Francia: ‘Grazie a lei e alla sua canzone, abbiamo triplicato il numero di turisti’. E mi ha consegnato le chiavi della città”. Frequentava molto la località. “Per niente: solo questione di sonorità”. Quindi l’ha scelta a caso? “Non proprio: un giorno ci sono andato con Gino Paoli: arriviamo e tutto era chiuso, giornata grigia, una tristezza vera. Ci ero rimasto male. Però suonava bene il nome, ed è diventata un mio pezzo”» (Ferrucci) • «Da giovane avrei potuto intraprendere la carriera di manager internazionale, e certe volte mi capita di ripensare a questa cosa… E poi spesso penso alla scelta di vivere tra Napoli e Capri, niente affatto zona di supporto promozionale del settore. Non a caso molti colleghi napoletani hanno rinunciato all’habitat naturale, familiare e creativo offerto dalla loro città natale in cambio di più chances lavorative che supportassero più a lungo, così, la loro immagine. Io invece sono rimasto qui. Amo troppo questi luoghi. Sono fondamentalmente un romantico» • «Direi che traspira sempre un pizzico di napoletanità in tutte le canzoni che faccio, e sento in me sia la vena americana sia quella napoletanizzante. Fin da ragazzo ho cercato una fusione perfetta fra questi due mondi. Quando mia madre cantava le canzoni napoletane, io le arrangiavo in chiave più moderna per i miei coetanei. Poi loro pensavano che fossero canzoni mie». «In lei hanno convissuto due anime: il cantante di twist e lo chansonnier confidenziale. Quale la rispecchia di più? “Il pubblico mi riconosce nelle atmosfere sentimentali, ma le dirò la verità: dentro di me vive un’anima rock molto presente che in pochi sospettano. Forse solo Adriano Panatta…”. Perché Adriano Panatta? “Con Adriano ci incontriamo ogni estate a Capri, e ogni volta che mi sente suonare mi dice: ‘Peppino, basta con Champagne, tira fuori il rock’”. […] “Credevo di essere amato solo come cantante confidenziale, ma ripensandoci Let’s Twist Again è stato il mio disco più venduto”» (Antini) • «Champagne e Roberta me le chiedono sempre: oramai hanno vita autonoma, e non riesco a distaccarmene. Sono la prima e unica richiesta quando vado in televisione: per gli altri brani, magari i più recenti, non c’è mai tempo. Eppure ne ho incisi 500, mica due». «Tanti italiani si sono innamorati con le sue canzoni. “Negli ultimi anni è più la gente che mi minaccia, ‘mannaggia a te’, che chi mi ringrazia”. […] Il suo Sanremo migliore? “L’anno de Il sognatore. Mi arrivò un telegramma di Dalla: ‘Stupenda esibizione’. Mi ero illuso di arrivare tra i primi: non fu così, non so se per qualche inghippo”» (Finos) • «L’uomo che, assieme a Renato Carosone ma senza la sua inventiva, ha avuto il merito di adattare la canzone napoletana classica ai ritmi moderni, principalmente americani» (Borrometi). «Padre spirituale di un rinnovamento: con lui la canzone napoletana indossò la minigonna» (Marinella Venegoni) • «Cosa le piacerebbe? “Le pare normale che non abbia mai avuto un sabato sera mio, magari con ospiti Mariah Carey e Lady Gaga?”» (Finos). «Si sente sottovalutato come artista? “Forse un po’, e da sempre. Ogni tanto mi guardo da fuori, e poi sottolineo ‘Oh, sono Peppino di Capri’, e ripenso a tutto quello che ho realizzato: le mie storie, le persone incontrate, le infinite serate, la fortuna di poter vivere grazie a ciò che amo”. […] Ha girato il mondo. “Abbastanza, non come altri che hanno conquistato la Russia: a Est venivo considerato un cantante molto chic non in grado di cantare pezzi commerciali. Però mi adorano in Turchia – lì per strada mi chiamano per nome –, e negli anni Sessanta ho realizzato tre esauriti all’Olympia di Parigi e uno alla Carnegie Hall di New York. Ah, in Germania ero un idolo, ho anche recitato”. […] A New York ha conosciuto un certo Gambino. “In realtà, da lui sono andato ospite a pranzo, però chi era realmente l’ho saputo subito dopo averlo salutato”. Non si era proprio reso conto? “È la mia ingenuità. E pensare che gli indizi non mancavano. Appena arrivati, ci ha accolti un uomo mentre allenava un cane da combattimento intento a mordergli il braccio. La casa era di un lusso mai visto. Lo stesso Gambino a metà pasto ha fermato tutti, e rivolto a me ha deciso: ‘Tu ora me canti Malatia…’”. E lei? “Ho accettato. Per fortuna ai tempi non c’erano i telefonini, altrimenti mi sarei fottuto la carriera. Lo sa che, ore dopo, all’uscita, quel signore ancora addestrava il cane?”» (Ferrucci) • «Sono nato per fare musica, e penso di non saper fare altro» • «Tutte le canzoni hanno lasciato una traccia profonda, ma la cosa più bella per me è stata sempre quella di ascoltare l’applauso. Mi godo quel momento, ma poi penso subito a domani».