21 agosto 2019
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Biografia di Paul Anka
Paul Anka (Paul Albert A.), nato a Ottawa il 30 luglio 1941 (78 anni); canadese naturalizzato statunitense. Cantautore. Paroliere. Compositore. «Canto Diana tanti anni dopo perché il pubblico me la chiede, perché la mia casa discografica […] me la imporrebbe comunque. Ma, soprattutto, la canto perché è nel mio cuore» • «La mia famiglia è libanese, ma ho anche un po’ di sangue siciliano nelle vene. Mio padre gestiva un piccolo ristorante chiamato La Locanda; mia madre lavorava ai grandi magazzini Sears per pagarmi le lezioni di musica. Fin da piccolo sognavo una carriera artistica. Avevo cominciato scrivendo racconti e collaborando a un giornale locale, ma quando a quattordici anni mi capitò di mettere in musica una poesia che avevo scritto per una delle mie cotte seppi di aver trovato la mia strada. E niente poteva più fermarmi. I cori scolastici e le gare di dilettanti non mi bastavano; presi un po’ di soldi in prestito e partii per New York, dove avevo uno zio e degli amici. Per dormire dovetti accontentarmi di un materasso steso in una vasca da bagno; nel frattempo avevo deciso che sarei andato in tutte le case discografiche a offrire la mia canzone, procedendo in ordine alfabetico. Non dovetti insistere a lungo: alla prima casa che visitai (Abc Records) incontrai Don Costa, musicista e produttore che in seguito avrei presentato a Sinatra. Don mi firmò un contratto, e la mia carriera era iniziata» (a Ermanno Bencivenga). «Ha solo 16 anni quando scrive e incide Diana, il brano che lancia la sua stella nel firmamento musicale mondiale e che ad oggi resta il suo più grande successo, nonché una delle hit più fulminanti dell’epoca (9 milioni di copie vendute, numero 1 in hit parade su entrambe le sponde dell’Atlantico). Su chi fosse realmente Diana si è largamente speculato: chi dice fosse una baby-sitter della sorella, chi una ragazza che aveva visto in chiesa e conosceva appena, chi una compagna di scuola. Quest’ultima versione è stata confermata da Diana Ayoub, una ragazza di origine libanese – come Anka – più grande di un anno, della quale il timido Paul si era innamorato, non corrisposto. Sfortunato in amore, fortunato in musica. […] Ironia della sorte: sembra che la vera Diana abbia cercato in tutti questi anni di mettersi in contatto con Anka cercando di ottenere vantaggi economici dall’incredibile successo ottenuto dalla canzone» (Ezio Guaitamacchi). «Un’autentica esplosione, […] e altri dischi che seguirono il primo (fra cui You Are My Destiny) non gli furono molto da meno. Che cosa ha voluto dire avere un successo straordinario così giovane? In che modo ha influenzato il resto della sua vita? "Fu la realizzazione di un sogno, ovviamente. Ma non mi diede alla testa. Quello in cui vivevo era ancora un piccolo mondo, uscito da poco dalla guerra. E non era un mondo dominato dai media: per quanto grande fosse il mio successo, potevo ancora sbagliare e imparare sbagliando. Quando arrivavo in una piccola città per uno spettacolo, quel che avrei fatto quella sera non sarebbe rimbalzato in televisione per tutto il mondo; c’era ancora, nonostante tutto, abbastanza quiete intorno per crescere. […] E poi c’era la mia famiglia; c’erano l’affetto e la fiducia che mi aveva dato, e che adesso mi permettevano di mantenermi in equilibrio. Così, invece di andare alla deriva come tanti altri idoli giovanili, maturai molto in fretta: non volevo perdere quel che avevo, e capivo di dovermi muovere con intelligenza per non perderlo"» (Bencivenga). «Paul ha dimostrato anche di essere un asso della pubblicità, almeno per quel che riguarda i suoi motivi. Nessun agente pubblicitario, infatti, avrebbe potuto avere un’idea più felice della sua per il lancio di You Are My Destiny, comunicando ai giornalisti che per quella canzone si era ispirato a Sophia Loren, dopo averla ammirata in Desiderio sotto gli olmi accanto a Tony Perkins. Il ragazzo prodigio, attratto e ispirato dalla seducente bellezza della nostra Sophia, ha commosso e divertito gli americani, che in pochi giorni hanno fatto scomparire dai negozi centinaia di migliaia di dischi con la canzone. Il resto è noto. Entusiasmato dai suoi successi, Paul ha visitato il Giappone elettrizzando anche i figli del Sol Levante. È andato in Inghilterra, dove ha fatto delirare tutte le ragazzine e le vecchie zittelle. In Francia le ragazze hanno messo a dura prova la sua pazienza, in quanto gli ripetevano continuamente che un cantante così giovane e bello non c’è mai stato in questo mondo. Nel frattempo, la crescente invasione internazionale dei jukebox ha reso popolare la sua voce in ogni continente» (Gino Barni, nel 1959). Altro suo grande successo di quegli anni fu Put Your Head on My Shoulder, «una delle vette del cantautorato sentimentale del teen idol Paul Anka. […] Prodotta da Don Costa e uscita su singolo nel 1959 (un rispettabilissimo numero 2 nella classifica Hot 100 di Billboard), nel 1968 sarà un successo anche per i Lettermen, un gruppo vocale specializzato in oldies. Con il titolo di Abbandonati, amore viene anche ripresa dal suo stesso autore all’interno di un album cantato nella nostra lingua, Italiano (1963, contenente tra le altre una traduzione della stessa Diana)» (Guaitamacchi). «Un successo troppo precoce. Dopo pochi anni, la musica sarebbe stata del tutto rivoluzionata dai Beatles e dai Rolling Stones. “Le mie erano canzoni innocenti, adolescenziali, assolutamente ingenue”. […] Un’innocenza travolta dalla seconda rivoluzione rock. E il successo fantastico di Paul Anka si sciolse come neve al sole. Anche se il cantautore rimase comunque attivo nel circuito di Las Vegas, cantando in convention […] o scrivendo per altri» (Marco Molendini). «I primi anni Sessanta furono per me un periodo di grande sviluppo e grandi soddisfazioni. Nel 1961 recitai nel film Il giorno più lungo e ne composi la colonna sonora; nel 1964 scrissi il tema musicale per il Tonight Show, la trasmissione di più lunga durata nella storia della televisione americana. Ma era anche arrivato il momento di girare pagina. Facendo spettacoli in tutto il mondo, avevo imparato a dare una dimensione internazionale al mio lavoro. A un certo punto avevo sette dischi fra i primi dieci in Giappone e quattro fra i primi dieci in Italia. Ma la Abc Records non era in grado di darmi la distribuzione internazionale che volevo. Così comprai per 250 mila dollari tutti i diritti delle mie canzoni e la lasciai. Entrai in contatto con la Rca, che non solo aveva interesse al mercato estero, ma stava costituendo una sua filiale italiana, e mi offrì di trasferirmi in Italia e contribuire a lanciarla. Accettai, e vissi a Roma dal 1964 al 1966». «Paul Anka, insieme ai Platters (Only You), è stato il primo dei grandi cantanti o complessi americani che hanno cambiato la storia della musica leggera ad arrivare in Italia perché, in una curiosa inversione dei tempi, precedette Presley, Jerry Lee Lewis, Little Richard, cioè i campioni del rock, che negli States erano nati prima. […] Anka sbarcò fisicamente in Italia nel 1961, al Lirico di Milano. In quel teatro zeppo fino all’inverosimile noi ragazzi assistemmo ad una scena sbalorditiva: mentre cantava Crazy Love, le nostre compagne del liceo, che in classe portavano ancora il grembiule nero (il burqa di quei tempi), trafficando sotto le loro caste camicette tirarono fuori i reggiseni e li gettarono sul palcoscenico ai piedi del cantante, tra l’altro piuttosto bruttino» (Massimo Fini). «Oltre ad avere inciso un altro album di suoi successi tradotti nell’italico idioma (Paul Anka – A casa nostra, 1964), il ragazzo canadese si troverà a interpretare alcuni brani originali scritti da nostri autori, partecipando più volte al Festival di Sanremo; fra tutte ricordiamo l’apparizione del 1964 con Ogni volta, che si piazza seconda in gara e ottiene un grande successo (numero 2 nella nostra hit parade, due milioni di copie vendute), e quella del 1968 in coppia con Johnny Dorelli su un brano di Mogol-Battisti, La farfalla impazzita. La sua avventura italiana però finisce quell’anno: tornato a casa, accetterà la sfida di scrivere un testo per Frank Sinatra» (Guaitamacchi). «My Way ha accompagnato la sua storia matura, eppure per Frank Sinatra era una condanna. “La odio”, confessava, ma non poteva non cantarla in ogni occasione, pur riuscendo magicamente, col suo mestiere e la sua classe, a renderla eterna, depurata dal gusto tronfio non solo della melodia, ma anche del testo che Paul Anka aveva scritto pensando a lui. […] La cosa buffa è che anche a Paul Anka quel pezzo, che i francesi Claude François e Jacques Revaux avevano chiamato Comme d’habitude, racconto di un amore finito male (quello di François con la cantante France Gall), non piaceva del tutto: “È una canzonaccia, ma ha qualcosa”, commentò, dopo averla sentita alla radio, mentre era in Costa Azzurra. Volò a Parigi e ne acquisì i diritti per un solo dollaro, lasciando agli autori le loro royalties. […] Tornato in America, l’autore di Diana capì che poteva cucire quel pezzo sulla voglia di “ritirarsi dagli affari” che Frank gli aveva confessato una sera a cena, parlando di quel suo momento di ripiegamento: aveva divorziato da poco con Mia Farrow, aveva 53 anni e le scatole piene. Retroscena che offre il giusto senso ai quei versi iniziali, dall’apparenza iettatoria: “E adesso la fine è vicina, / così ho davanti / l’ultimo sipario”» (Molendini). «Conoscevo Frank da molti anni; nel 1959 ero stato il più giovane artista della storia di Las Vegas, e lì ero entrato presto in contatto con il suo gruppo di amici, il cosiddetto Rat Pack. […] Volevo disperatamente scrivere una canzone per lui. Ci incontrammo a Miami, dove io facevo uno spettacolo e lui stava lavorando a un film, poi tornai a New York, e una notte, verso l’una, mi trovai a lavorare su quella melodia comprata in Francia. Originariamente era una canzone rock, ma la rallentai e la feci diventare più "classica" al piano; le parole andavano cambiate radicalmente e, mentre cercavo parole nuove, Frank che avevo appena lasciato cominciò a parlare dentro di me. Mi trovai a usare le sue espressioni, i suoi modi di dire, a scrivere con la sua voce. Quando fu finita, alle cinque del mattino, ne feci un disco dimostrativo e glielo mandai. Non pensai neanche per un minuto di registrarla io stesso (e la Rca me ne volle per questo): era la sua canzone». «La canzone, incorniciata dall’arrangiamento di Don Costa, prese il volo lentamente ma inesorabilmente: a ritirarsi, Sinatra ci mise due anni, e altrettanto impiegò per il ripensamento, spinto proprio dal successo crescente di My Way, diventata, grazie alla sua voce capace di darle senso e profondità, un inno egocentrico alla sua storia di uomo caduto e risalito, discusso e pieno di scheletri nell’armadio, perfetta per i finali di show sempre più celebrativi, ospiti di stadi, o davanti alle piramidi, amato da dittatori (come Milosevic) e presidenti (Trump l’ha usata per il suo primo ballo con Melania da presidente), gettonatissima a compleanni e funerali, capace di resistere al tempo, oggetto di centinaia di reinterpretazioni» (Molendini). «Una versione live di Elvis Presley è stata il primo successo postumo del re del rock’n’roll nell’autunno 1977: l’aveva inserita nei suoi spettacoli a metà dei ’70, in un triste ma appropriato presagio di fine carriera. Poco tempo dopo è il turno della famigerata cover punk-rock di Sid Vicious, che la trasforma in uno sberleffo dissacratorio in celebrazione del motto “live fast, die young”; epocale il clip tratto dal film The Great Rock’n’Roll Swindle di Julien Temple, dove si vede il bassista dei Sex Pistols sparare sul pubblico dopo aver cantato la “sua” My Way» (Guaitamacchi). «Devo ammettere che la mia popolarità ebbe un incredibile balzo. Lo sanno tutti: quel che Sinatra tocca diventa oro. Ma è andata molto bene anche un’altra mia canzone, She’s a Lady, lanciata da Tom Jones» (a Guido Coppini). «Dopo una parentesi cinematografica, negli anni ’70, Paul Anka tornò sul palcoscenico per non lasciarlo più» (Andrea Munari). Da allora è «un entertainer di lusso, stella dei casinò americani» (Antonio Lodetti). Nel 2005, però, «per festeggiare i suoi 45 anni di carriera, ritenta l’avventura sul mercato internazionale pubblicando un cofanetto antologico con tutti i suoi brani famosi, ma soprattutto lanciando la sfida ai grandi del rock col nuovo cd dal programmatico titolo Rock Swings. I giovani vanno in testa alle hit parade con i classici del passato? Lui fa il percorso al contrario. Prende pezzi dei Nirvana, dei Rem, degli Oasis, dei Soundgarden e li stravolge con classe dipingendoli con i raffinati colori dello swing. “Ho contribuito al successo di Michael Bublé, che è canadese come me – ricorda –, e non potrei mai tradire lo spirito della ballata, però ora ho deciso di cantare i brani preferiti dai miei figli e dai ragazzi della loro età”. Paul Anka ha selezionato più di 200 canzoni prima di entrare negli storici Capitol Tower Studios (dove incidevano Sinatra e King Cole) con una big band e trasformare il rock in musica confidenziale. “Io ho vissuto ed amato il rock, sono stato in tour con Chuck Berry, Eddie Cochran, Jerry Lee Lewis, ma amo la canzone romantica, la melodia. Ogni cantante rock che si rispetti – anche i Rolling Stones con Angie – ha una ballata melodica tra i suoi cavalli di battaglia. Non a caso nel cd ho scelto Tears in Heaven di Eric Clapton, un pezzo davvero commovente”. Così espropria Everybody Hurts ai Rem, The Lovecats ai Cure, Black Hole Sun ai Soundgarden (“la più difficile da riarrangiare”), Wonderwall agli Oasis, Smells Like Teen Spirit ai duri Nirvana (questi ultimi due brani sono i suoi preferiti), Jump ai Van Halen. […] In sintesi, il rock duro e puro si rifà il look (un bel look) stemperandosi in un jazz pop a cavallo tra Glenn Miller e Sinatra. “Non esiste il muro contro muro tra i vari generi musicali. Una bella canzone resta sempre una bella canzone, e, se tu sei un buon musicista, la puoi rileggere negli stili più diversi”» (Lodetti). Un insperato colpo di fortuna gli occorse nel 2009, quando, all’indomani della morte di Michael Jackson, ne fu pubblicato con grande enfasi il singolo postumo This Is It, «un disco destinato a vendite stellari anche perché accompagnato da un cd e un film. […] Che beffa per papà Joe e i fratellini, che avevano rinvenuto quel “master” solo piano e voce tra i lasciti del caro estinto. This Is It non è un inedito, ma un brano che Jacko aveva scritto con Paul Anka nel 1983 per un album di duetti. Il divo si era poi defilato, portandosi dietro i nastri e costringendo il cantante a minacciare denuncia. In casa Jackson la vicenda era stata dimenticata. Ma nel 1991 la canzone era stata incisa da una stellina portoricana, Safire, con il titolo I Never Heard, che si potrebbe forzatamente tradurre con “Io non l’ho mai sentita”. L’avevano sentita, invece, i reporter di Tmz, il sito di gossip, che insieme a quelli del New York Times hanno fatto una telefonatina a Paul Anka: il cantante prima ha minacciato azioni legali, poi si è placato alla notizia che gli eredi Jackson gli assicureranno la metà dei profitti. “Avevamo una cinquantina di pezzi su cui lavorare”, gli ha detto l’arrangiatore John McClain. “A me sembrava che, tra tutte, quella canzone suonasse differente: ora capisco perché”» (Angelo Aquaro). Tuttora attivo, dopo oltre sessant’anni di carriera (celebrati nel 2017). Quando, nel maggio 2018, intervistandolo per l’Ottawa Citizen, Lynn Saxberg gli chiese se stesse meditando il ritiro, Paul Anka rispose: «Io davvero non ci credo. Quando qualcuno mi dice “Sto per ritirarmi”, lo guardo e dico: “L’hai già fatto”. Non puoi pensarci, perché, quando sei nella nostra industria e fai quello che fai a modo tuo, l’arte non ha tempo. Non smetterò mai di voler essere in attività, perché l’ho visto troppe volte, che si trattasse di Sinatra o di altri nello spettacolo: diventano un’altra persona e muoiono. È ciò che mi ha mantenuto giovane. È quello che faccio meglio. Vivo in un’epoca in cui si vive più a lungo, e, finché riesco a esibirmi e a cantare a squarciagola alla mia maniera, perché no? Che altro dovrei fare?» • Per aver illustrato nel mondo il nome della città, Ottawa gli ha dedicato nel 1972 una strada, la Paul Anka Drive, e nel 1981 una giornata commemorativa, il Paul Anka Day (26 agosto) • Sposatosi in prime nozze a soli ventun anni, nel 1963, con la modella Anne de Zogheb, figlia di un diplomatico libanese, ebbe da lei cinque figlie, per poi divorziarne, dopo quasi cinquant’anni di vita insieme, nel 2001; assai più breve il secondo matrimonio, con la sua allenatrice di origine polacca, Anna Åberg, che sposò in Sardegna nel 2008 per rescindere l’unione già nel 2010, ottenendo in seguito la custodia esclusiva del figlio da lei avuto; nel 2016, a 75 anni, si è sposato in terze nozze con Lisa Pemberton, sua attuale consorte • «Nel ’59, in tournée con Holly, Big Bopper e Ritchie Valens, non salì per un caso sull’aereo che si schiantò uccidendo i tre in quello che viene ricordato “il giorno in cui la musica morì”» (Lodetti) • Nel giugno 1996 «accadde che, mentre teneva il suo recital in un casinò di Las Vegas, la dentiera s’inceppò. Sì, insomma, forse non era fissata a dovere, Paul perse il controllo, e, nel tentativo maldestro di sistemarsela mentre continuava a cantare, la protesi gli schizzò via dalla bocca in direzione della platea. Tanto incredibile da sembrare una leggenda metropolitana» (Giuseppe Videtti) • «Uno dei più geniali musicisti del secolo scorso» (Giuliano Zincone). «Un personaggio che ha fatto la storia e la leggenda del rock. […] Altri a questo mestiere hanno dato la salute e la vita: lui gli ha dato cortesia ed efficienza. Però anche tanto equilibrio ha avuto il suo prezzo: […] non ha mai più scritto un’altra Diana» (Bencivenga) • «Del suo capolavoro, My Way, preferisce la versione di Presley o quella di Sinatra? "Mah, è come chiedermi se avrei preferito andare a letto con Liz Taylor o con Sophia Loren. Sono due cose completamente diverse, e tutt’e due apprezzabili"» (Gino Castaldo). In quanto a Diana, «in tempi recenti, il cantante l’ha reincisa in un duetto con il nostro Adriano Celentano, contenuto nella raccolta Unicamente Celentano (2006); per l’occasione, le parole vengono da Mogol, in modo da aggiornare la situazione raccontata all’età degli interpreti (il protagonista è un uomo di una certa età che si innamora di una ragazza più giovane di lui)» (Guaitamacchi) • «Ho cura di me; non ho vizi; ho visto tanti miei colleghi distrutti dall’alcol e dalle droghe, e non ho certo intenzione di imitarli. Non ho mai permesso che l’industria discografica e i media mi facessero a pezzi. Sono un artigiano e tengo molto al mio lavoro: alla perfezione di quel che faccio, al mio rapporto con il pubblico. Mi sento a posto; ho qualcosa da dire, e lo dico. Se funziona, bene; se no, sono contento lo stesso».