Il Sole 24 Ore, 20 agosto 2019
Le sanzione Usa costano caro all’Iran. Il Pil crolla del 9,5 per cento, come quando ci fu la guerra
Se esistesse un premio internazionale sull’arte di convivere con le sanzioni, nessuna popolazione lo meriterebbe più degli iraniani. Alternando periodi più duri ad altri meno difficili, alla fine sono ormai 40 anni che questo Paese, potenzialmente ricchissimo di risorse naturali, ha a che fare con le conseguenze economiche derivanti dalle tensioni con gli Stati Uniti. Di recessioni gli iraniani ne hanno viste tante, e ne hanno superate quasi altrettante. Potrebbero avere una sorta di PhD. L’ultima, tuttavia, potrebbe risultare particolarmente dolorosa. Il colpo assestato all’economia iraniana dalle ultime sanzioni americane rischia di essere ricordato come il peggiore dal lontano 1988, quando la Repubblica islamica era ancora risucchiata nella lunga e sanguinosa guerra con il vicino Iraq di Saddam Hussein.
In quell’anno, l’ultimo della guerra, il Pil iraniano crollò del 9,5 per cento. Oggi una guerra non c’è, non ancora. Ma il giro di vite sulle sanzioni voluto dal presidente americano Donald Trump, e dal suo staff di falchi, sta mettendo in ginocchio quella che, tre anni fa, era considerata un’economia promettente destinata a volare, un grande e ricco mercato emergente su cui centinaia di compagnie straniere volevano investire.
È passato poco più di un anno dall’8 maggio del 2018, quando Trump annunciò al mondo l’uscita – unilaterale – degli Stati Uniti dal Piano di azione congiunto (Jcpoa), l’accordo sul nucleare firmato nell’estate del 2015 dal gruppo 5+1 e l’Iran. Il primo round di sanzioni è entrato in vigore tre mesi dopo, il secondo, e più duro, in novembre. Poi gli altri. È trascorso poco tempo. Eppure la situazione per l’economia iraniana, secondo l’ultima revisione del World economic outlook elaborato dal Fondo Monetario internazionale (Fmi), di cui parte del contenuto è stata anticipata dal quotidiano britannico Financial Times, è davvero problematica: quest’anno la contrazione del Pil iraniano potrebbe essere del 9,3 per cento (nel 2018 era stata del 4%). Quindi molto di più del già alto -6% che l’Fmi aveva stimato in aprile. Cosa è accaduto da allora? Dopo aver concesso delle esenzioni a tutti i maggiori importatori di petrolio iraniano (tra cui Cina, India, Giappone ma anche l’Italia), Donald Trump ha annunciato in aprile la fine delle moratorie. Il presidente americano punta alla tolleranza zero con un obiettivo; obbligare Teheran a firmare un nuovo accordo molto più severo e limitante. Difficile prevedere se ci riuscirà. La Repubblica islamica è una tra le economie più diversificate del Golfo, per quanto l’export di energia rappresentasse nel 2017 il 70% dell’export complessivo. Gli effetti della crisi economica si sono fatti sentire. Grazie alla rimozione delle sanzioni nel 2017 (anno in cui il prezzo del greggio si aggirava su una media di circa 50 dollari al barile) l’Iran aveva ricavato dalle rendite energetiche intorno ai 40 miliardi di dollari. Dal novembre 2018, quando sono entrate in vigore le sanzioni Usa sull’export petrolifero (pur con le moratorie) sono venuti meno 1,5 milioni di barili al giorno di greggio iraniano. Da novembre a fine aprile il danno sarebbe stato di 10 miliardi di dollari. Ma da maggio, con la fine delle esenzioni, l’effetto sanzioni risulterà moto più doloroso.
Il quadro macro-economico si è così aggravato. Con l’inflazione ufficiale che ormai punta verso il 50%, la svalutazione del rial che ha raggiunto tassi inimmaginabili solo due anni fa (oggi sul mercato nero ci vogliono 117mila rial per un dollaro americano, mentre il tasso ufficiale è 42mila). Per gli imprenditori iraniani acquistare prodotti dall’estero, nei casi consentiti, diviene quasi proibitivo.
Già prima dell’entrata in vigore delle ultime sanzioni molte multinazionali straniere, occidentali ma anche orientali, avevano preferito ritirarsi dal mercato iraniano. Per quanto promettente fosse, la scure delle sanzioni Usa e la perdita di un mercato di gran lunga più ricco aveva dissuaso anche quelle compagnie che già avevano avviato progetti. Per quanto vicini sembrano tempi lontani. Proprio nel 2016 il Pil iraniano era balzato del 10% circa mentre l’inflazione era tornata sotto le due cifre.
Difficile prevedere con precisione cosa accadrà nel medio periodo. Diversi economisti sono convinti che la recessione non toccherà i livelli stimati dall’Fmi. Per altri vi sono le premesse perché la contrazione del Pil possa superare anche il 10 per cento. Quando, nel 2012, le sanzioni americane (insieme all’embargo petrolifero europeo) mutilarono l’export energetico iraniano del 40%, il Pil si contrasse del 6,6 per cento. Questa volta c’è la possibilità che l’export iraniano possa essere quasi azzerato (sarebbe già caduto a 500mila barili al giorno). E che il braccio di ferro tra Teheran e Washington possa durare più a lungo.
Non è tanto la gravità della recessione a destare le maggiori preoccupazioni quanto la sua durata. Gli otto anni della guerra contro l’Iraq furono un disastro per l’economia. Nel 1984 il Pil si contrasse del 9,9%, nel 1986 del 9 e nel 1988 del 9,5. Questa volta l’arte – e la pazienza – degli iraniani a convivere con le recessioni potrebbero essere messe a dura prova.