Corriere della Sera, 20 agosto 2019
I figli perduti della Rivoluzione russa
Wimbledonx
Sembra che nelle sue pagine racchiuda tutti i mali del mondo questo libro dello psicologo e slavista Luciano Mecacci pubblicato da Adelphi, Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica (1917-1935). Sarebbero stati sette milioni, dalla Prima guerra mondiale alla vigilia della Seconda, gli adolescenti senza famiglia vaganti nell’immensa Madre Russia alla ricerca di qualcosa da mangiare, di un posto dove dormire, nelle stazioni, sui tetti dei treni, sotto i balconi delle case, nei sotterranei, nei gabinetti, abbracciati ai tubi che emanano un po’ di calore, dentro i cassonetti della spazzatura, esperti nel fuggire dai centri di accoglienza, dagli orfanotrofi, dai riformatori, dalle prigioni, dai Lager.
La storia dolorosa dei ragazzi di strada, vagabondi, teppisti, vittime della Rivoluzione, della guerra civile, della carestia restò tabù fino agli anni staliniani – e successivi – che negavano anche l’esistenza di quei milioni di morti di fame e di freddo. In un mondo rinato doveva contare allora soltanto la positività del regime sovietico.
Non poteva – era un dogma – esistere un esercito di straccioni e di delinquenti, maestri, per vivere, dei traffici più loschi, dal furto alla rapina, dalla prostituzione al commercio di droga, al delitto: il partito ormai aveva risanato l’Urss.
Mecacci ha studiato e documentato con sommo rigore quella storia infame, ha scovato fonti sconosciute, romanzi rispuntati da chissà dove, opuscoli, articoli di giornale, testimonianze, memorie, citazioni, fatti della vita. Ne è nato un libro atroce, un’antologia dell’orrore, un «romanzo» nero.
Chi erano i besprizornye? Lo scrittore si è proposto di spiegarlo anche «attraverso i loro pensieri, il loro linguaggio, le loro emozioni e i loro affetti e a questo scopo si è dato ampio spazio alle testimonianze dei protagonisti, così come ai racconti e alle relazioni degli scrittori russi o stranieri negli anni Venti e nei primi anni Trenta».
Si potrebbe ormai celebrare il centenario del besprizornye. Non è certo una novità il fenomeno, ne hanno parlato in tanti, scrittori e giornalisti, più o meno illustri, minimizzatori di quella piaga o indignati accusatori del costume di vita di un paese che proponeva se stesso come modello al mondo.
Nomadi
Sapevano fuggire
dai centri di accoglienza,
dagli orfanotrofi, dai riformatori, dalle prigioni
Joseph Roth raccontò nel 1926 di quei bambini coperti di stracci «che vivono di aria e di sventura». Chagall, il grande pittore, nel 1931 gli insegnava a dipingere: «Mi si stringe il cuore quando vi ricordo». Walter Benjamin, in quegli stessi anni, fu scettico sulla possibilità di educarli, di salvarli. Dante Corneli, a lungo in un lager, accusato di trotskismo, era esterrefatto da quei «branchi di piccoli animali», Nadežda Krupskaja, la pedagogista moglie di Lenin, attribuiva ogni responsabilità alla politica zarista e borghese del passato. E André Gide, nel suo viaggio in Russia nel 1936 restò esterrefatto: «Speravo proprio di non vedere più besprizorni». Aleksandr Solženitsyn li dipinse nelle terribili pagine di Arcipelago Gulag, Il’ja Erenburg li definì «figli di nessuno» e anche «figli del cuculo», abbandonati da tutti come fa il cuculo quando depone le uova, nella speranza che giunga qualcuno a salvarli.
Scrissero dei besprizornye Brodskij, «Storpi sono, gobbi/ affamati, mezzi nudi», e un giornalista, George Popoff: «I racconti sulle madri che uccidono i loro piccoli per mangiarli non appartengono al regno delle favole». Anche Simenon, nel 1933, scrisse di quei ragazzi nel suo romanzo Le finestre di fronte, protagonista una bambina ladra e prostituta, e uno psichiatra, Vladimir Bechterev fece tra il 1919 e il 1920 una terrificante ricerca sulla prostituzione di mille bambine e ragazze tra gli otto e i diciassette anni internate negli orfanotrofi e nelle case di correzione.
Raccontarono di quei ragazzi Majakovskij, Bulgakov, Pasternak, Esenin, Isaak Babel, Šalamov nei suoi Racconti di Kolyma. Una macabra storia lunga decenni.
Dovrebbero doverosamente far da chiusa a questo libro che fa male al cuore i versi di Aleksandr Blok: «Quelli che sono nati in tempi oscuri/ non rammentano il proprio cammino./ Noi – figli dei terribili anni della Russia —/ non potremo scordarci di nulla (...)».
È davvero così?
Perché il male di vivere, in tempi vicini all’oggi, in continenti difformi, seguita a trionfare, sotto diverse forme – le guerre, la violenza, la disuguaglianza, l’ingiustizia – e l’inferno, come scrivono i poeti, sembra davvero troppo spesso certo.